E niente, proprio non ci riesce: ogni volta che Matteo Renzi prova a frenare l'amore per se stesso e la conseguente personalizzazione di un partito (e peggio ancora di un Paese). Così anche oggi, partecipando al videoforum di Repubblica, annuncia senza mezzi termini che nel caso in cui perda il referendum sulle riforme costituzionali lascerebbe la politica. Detto proprio così, con l'insolenza avventuriera di una scommessa durante un partita di briscola al bar. «Se perdo il referendum smetto di fare politica» sono state le parole (naturalmente entro i 140 caratteri, buone per starci in un tweet) che il Presidente del Consiglio ha pronunciato con il solito ghigno della sfida a tutti i costi e con la pervicacia di chi rivendica per vendicare.
Eppure dentro quella frase, oltre che al tono, ci sono anche gli ingredienti tipici di un renzismo che ormai sembra essere sfuggito anche allo stesso Renzi, involvendosi da autorità in una boriosa sicumera fino a diventare un petulante e infantile battere i piedi per terra. "Se perdo il referendum" è la composizione lessicale cristallina di chi brandisce le riforme costituzionali come l'arma per procurarsi lo scalpo nemico, non ci sono i contenuti della riforma, non c'è la descrizione di un'urgenza per il Paese e nemmeno l'enunciazione di un valore politico da perseguire per il bene comune, niente di tutto questo: dentro quella frase c'è "l'io" contro tutto il resto, un primitivo richiamo all'adunata intorno al leader, c'è tutto il senso di chi crede di essere prioritario nell'agenda politica prima della politica stessa.
Lo so, ci dovremmo essere abituati dopo tutti questi anni di Silvio Berlusconi e ormai dovremmo anche avere capito la pasta egocentrica del nostro Presidente del Consiglio ma se è vero che da un lato lo stesso Salvini (solo per fare un esempio) s'impunta su presepi e crocifissi perché dovremmo preoccuparci di Renzi? Perché Renzi sta giocando la sua partita a poker sulla schiena della Costituzione, ad esempio. Potrebbe già questo essere un ottimo motivo. Una riforma costituzionale dovrebbe essere (o almeno l'hanno pensata così coloro che la Costituzione l'hanno scritta) l'ultimo passaggio di una maturazione politica allargata che ha il dovere di essere dibattuta nei modi e nelle forme più ampi possibili. Riformare la Costituzione non può avere niente a che vedere con l'amore per se stesso di un singolo governante o di una generazione politica malata di riformismo spettacolare solo per segnare il passo dal passato. Non c'è un reale contenuto politico (al di là dell'abolizione del bicameralismo con un nuovo Senato già anchilosato nei metodi di selezione) su cui si sia aperto un sano e schietto dibattito: "voi non l'avete mai fatta e solo per questo noi, qualsiasi cosa facciamo rispetto al vostro niente, vi siamo migliori", questo è il leitmotiv di questi ultimi mesi.
È inevitabile che per riuscire a continuare su questa linea Matteo Renzi abbia bisogno di troncare la discussione quando si rischia di entrare nel merito e così arriviamo all' aut aut. O me con la riforma oppure fate senza di me, ci fa intendere, sapendo bene come il servilismo dell'establishment che gli fa da sottobosco trema all'idea di poterne rimanere orfano. Per questo Renzi può esibire questo bullismo prêt-à-porter senza avere la sensazione di risultarne patetico: nel suo "smetto di fare politica" c'è tutto il senso del suo stancarsi di "fare da garanzia" ad una classe dirigente che oggi è stata scelta più per vicinanza al Premier che per effettivi meriti.
Non c'è differenza tra i "gufi" di oggi e i "coglioni" di prima, non cambia nulla tra il "senza di me non andate da nessuna parte" di Berlusconi o il "smetto di fare politica" strillato da Renzi. Sono le due facce della stessa malattia: l'elaborazione mitologica della politica come scontro frontale tra forze opposte dove a scontrarsi non sono i valori ma i "valorosi condottieri". Roba di qualche centinaio di anni, per dire. Altro che modernità.