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Referendum sul divorzio: 40 anni fa gli italiani scelsero la libertà

Nel 1974 i radicali di Marco Pannella sfidarono la Democrazia cristiana accettando la competizione referendaria. Il 13 maggio, all’apertura delle urne, si scoprì un’Italia civile e progressista che, mutata antropologicamente, anelava maggiore libertà.
A cura di Marcello Ravveduto
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La storia referendaria del nostro paese sin dalle sue origini è strettamente legata alle vicende del Partito radicale di Marco Pannella. Nella notte del 13 maggio del 1974, esattamente quarant’anni fa, la legge sul divorzio era confermata dal 59,3% degli italiani con una partecipazione al voto che sfiorava l’88%.

La battaglia per l’approvazione del divorzio era, tuttavia, cominciata alla fine degli anni Cinquanta e si era protratta stancamente per un decennio a causa dell’opposizione intransigente del Vaticano, rappresentata in Parlamento dal veto della Democrazia cristiana.

Quando nell’ottobre 1965 Loris Fortuna, deputato socialista, presentò un ulteriore disegno di legge sull’argomento, i radicali colsero l’occasione per spostare il dibattito da Montecitorio al Paese, organizzando una lunga stagione di lotta politica. Il divorzio ravvivava l’antica questione dei rapporti tra Stato e Chiesa: il Partito radicale, contestando chi riteneva impossibile l’affermazione di principi laici nel paese cattolico per eccellenza, contrappose, all’immobilismo generalizzato, il protagonismo degli interessati.

Lo schieramento divorzista, sin dall’esordio, prese una piega movimentista che spiazzò la classe politica parlamentare: appello individuale di coinvolgimento; nessuna discriminazione politica o ideologica tra i partecipanti; rapporto costante tra manifestazioni di piazza e azione parlamentare; mobilitazioni singole o collettive.

Il primo dibattito pubblico si tenne al teatro Eliseo di Roma il 12 dicembre 1965. Introdusse la manifestazione Mauro Mellini che chiese ai presenti di far lievitare nel popolo sentimenti e convincimenti divorzisti. Su questa linea, qualche mese dopo, i radicali annunziarono, in una conferenza stampa, la costituzione della “Lega per l’Istituzione del Divorzio” (Lid).

Tra aprile e novembre del 1966 si tennero due manifestazioni, a Milano e a Roma, che avviarono l’attivismo civile dei divorzisti. La comparsa della Lid, due anni prima del Sessantotto, era il primo sintomo di incapacità della politica di gestire autorevolmente la modernizzazione del Paese; ma era anche l’avvio di un nuovo modo di fare politica, atipico, critico, extraparlamentare e non violento, che si poneva l’obiettivo della conquista di un risultato concreto nel breve periodo. Una pratica riformatrice, non un assunto ideologico, più simile ai “girotondini” degli anni Novanta che al movimento studentesco e ai gruppi estremisti del Sessantotto e degli anni Settanta.

Nonostante i divieti del Vaticano, i richiami all’ordine dell’«Osservatore Romano» e i tentativi di diluire la riforma, il primo dicembre 1970 veniva approvata la Legge n. 898 sulla «Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio» (la proposta di Fortuna era stata nel frattempo integrata con quella del liberale Antonio Baslini). La Dc era stata battuta da una maggioranza laica che accumunava in un unico fronte i partiti divorzisti dal Pli al Pci.

I democristiani, però, avevano compiuto una mossa preventiva: a maggio era stata promulgata la legge sul referendum abrogativo di iniziativa popolare, un istituto della Costituzione mai reso operativo fino a quel momento. Due mesi dopo la promulgazione della norma la Conferenza Episcopale Italiana dichiarava la legittimità di avvalersi degli strumenti costituzionali per difendere la famiglia. Era il via libera alla raccolta di firme per ottenere l’abrogazione del divorzio.

Nel maggio 1971, grazie a 1.370.000 sottoscrizioni, l’Italia si preparava ad affrontare il suo primo referendum per abolire la legge Fortuna-Baslini. Si tentarono diverse soluzioni per evitare la consultazione, ma lo scioglimento anticipato delle Camere – il primo – e l’indizione delle elezioni rinviò la sfida. I radicali, dopo una prima opposizione al referendum, decisero, invece, di accettare la provocazione trasformandolo in un’occasione per ampliare la sfera delle libertà e far esplodere le contraddizioni clericali e reazionarie del regime democristiano.

Lo scontro elettorale si svolse in un clima oscurantista e inquisitorio. Fanfani, segretario nazionale della Dc, usò una duplice strategia di comunicazione: nelle città del centro-nord presentava l’abrogazione come un modo per difendere la libertà di tutti, anche dei comunisti; nelle piazze del Mezzogiorno, invece, cercando di bilanciare i «No» del Settentrione, descriveva uno scenario apocalittico in cui la difesa del matrimonio era saldata alla forza della legge e mai alla tenacia dell’affetto. Il matrimonio era, dunque, semplicemente un dovere per irreggimentare e disciplinare il rapporto tra Stato e società civile.

La conferma della legge dimostrò che i cittadini italiani erano meno bigotti di quanto immaginavano i leader della Democrazia Cristiana. Ma soprattutto, come ebbe a scrivere Pier Paolo Pasolini, i ceti medi erano radicalmente cambiati: la spinta del consumismo e dell’american way of life aveva annichilito l’Italia contadina e paleoindustriale spingendola verso una imborghesimento di massa, «una mutazione della cultura italiana che si allontana tanto dal fascismo tradizionale che dal progressismo socialista».

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