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Pensioni

Quota 41 e pensioni, cosa sbaglia il governo Meloni e chi ne pagherà le conseguenze: lo spiega un esperto

Per la manovra 2025 la Lega insiste su Quota 41, una pensione anticipata con ricalcolo contributivo dell’assegno. L’economista Michele Raitano ha spiegato a Fanpage.it perché una riforma simile cambierebbe ben poco, perché gli altri piani del governo Meloni sulle pensioni sembrano inefficaci e cosa servirebbe per aiutare davvero chi ha carriere segnate dalla precarietà.
Intervista a Michele Raitano
Professore ordinario in Politica economica all'Università Sapienza di Roma
A cura di Luca Pons
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Entrano nel vivo i lavori sulla manovra 2025, e come ogni anno al centro dell'attenzione ci sono anche la possibile riforma pensioni. Lo scorso anno il governo ha confermato Quota 103, ma con criteri più restrittivi, e prorogato Opzione donna e Ape sociale. Per il 2025, la Lega insiste su Quota 41 (in pensione con 41 anni di contributi a prescindere dall'età anagrafica), ma con un ricalcolo contributivo dell'assegno e forse limitata solo a certe categorie.

L'economista Michele Raitano, professore ordinario in Politica economica all'Università Sapienza di Roma, ha risposto alle domande di Fanpage.it per chiarire perché questa novità – su cui la Lega punta da anni – cambierebbe ben poco, ma non solo: Raitano ha spiegato perché quasi tutti i governi hanno sbagliato approccio alle pensioni, negli ultimi anni, e cosa bisognerebbe cambiare per aiutare davvero chi ha carriere segnate dalla precarietà, come giovani e donne.

Professore, negli ultimi anni in quasi tutte le pensioni anticipate che prevedono una "Quota" si parla di "ricalcolo contributivo". Cioè, l'assegno viene "ricalcolato" utilizzando il sistema contributivo. Partiamo quindi chiarendo una cosa fondamentale: qual è la differenza tra il sistema retributivo e quello contributivo?

Nel sistema contributivo la pensione dipende solo ed esclusivamente da quanti contributi versi e dall'età in cui lasci il lavoro. Quindi, il contributivo già include una sorta di disincentivo ad andare in pensione prima: più lavori, più la pensione è alta dato che versi di più e, al ritiro, viene applicato un coefficiente più elevato (che tiene conto dell’età di ritiro) per calcolare l’importo della pensione.

Al contrario, nel retributivo questo tipo di disincentivo non esisteva: nel momento in cui lasciavi il lavoro, prendevi un assegno commisurato ai salari di fine carriera. Se tu versavi poco per i primi 35 anni di carriera, e poi molto negli ultimi cinque anni, prendevi una pensione legata al ‘molto’. In più, non c'era nessun riferimento all'età pensionabile per il calcolo dell'assegno: prima andavi in pensione, più era alta era quindi la ricchezza pensionistica che avresti accumulato nella tua vita residua.

Chi rientra in quale sistema?

Sono interamente contributive le pensioni di chi ha iniziato a versare contributi dopo il 1° gennaio 1996. Chi ha iniziato a versare prima ha una quota retributiva fino al 1995 e una quota contributiva dal 1996 in poi. Infine, chi aveva almeno 18 anni di contributi versati al 1° gennaio 1996 ha una quota retributiva fino al 2011, e poi una quota contributiva per gli anni dal 2012 in poi.

Il professor Michele Raitano
Il professor Michele Raitano

Quando si parla di "ricalcolo contributivo" dell’assegno per accedere alle pensioni anticipate, quindi, chi ci perde?

Perde molto chi va in pensione molto giovane. Perde molto chi ha una parte retributiva ancora rilevante, quindi chi aveva versato un buon numero di anni di contributi fino al 1996. E perde molto soprattutto chi ha avuto carriere dinamiche: magari è stato precario, o poco pagato, o autonomo nei primi anni di carriera, versando poco, e poi negli ultimi anni ha versato molto di più.

Il sistema contributivo paga pensioni più basse?

No, non in assoluto. È che con il contributivo la pensione è il riflesso di quanti contributi hai versato, quindi della durata e del successo della carriera. Il problema è per tutte le persone che hanno avuto buchi durante la carriera e hanno versato poco.

La Lega spinge molto sull'ipotesi di Quota 41: andare in pensione con 41 anni di contributi, a prescindere dall'età anagrafica. Sarebbe conveniente?

C'è un problema sistematico. I meccanismi di pensionamento anticipato – fra i quali rientrerebbe Quota 41 – dovrebbero porsi l’obiettivo di consentire di andare in pensione prima a persone che hanno difficoltà a continuare a lavorare. Però paradossalmente tutti questi schemi di pensionamento anticipato si basano su anzianità molto elevate, e finiscono per avvantaggiare persone che hanno avuto carriere molto lunghe. Chi resta fuori sono le categorie più in difficoltà: i disoccupati di lungo periodo, le persone che sono state a lungo precarie, le donne.

Se partisse Quota 41 ci sarebbe anche il famoso ricalcolo contributivo. L'assegno quindi sarebbe più basso?

Sì, il lavoratore finirebbe in molti casi per avere un taglio della pensione. Tra l'altro, la platea interessata a Quota 41 ha un numero di anni di contributi molto alto, quindi ha anche una buona quota retributiva versata prima del 1996. L'importo della pensione che andrebbe perduto sarebbe, in media, piuttosto significativo.

La legge Fornero prevede già la pensione di anzianità: si può lasciare il lavoro con 42 anni e 10 mesi di contributi (un anno in meno per le donne), e senza ricalcolo dell'assegno. A questo punto non converrebbe aspettare, invece di scegliere Quota 41?

Sì, se io comunque posso uscire a 42 anni e 10 mesi allora Quota 41 mi dà un vantaggio di pochissimi mesi. Anche perché poi i tempi effettivi dipendono dalle finestre di attesa [per la pensione di anzianità sono di tre mesi, mentre per esempio per Quota 103 sono di 7 mesi per i privati e 9 mesi per i dipendenti pubblici, ndr]. Se c’è un requisito di anzianità elevatissimo, per persone che poi comunque prenderebbero la pensione al più tardi quindici mesi dopo, è una misura per nulla risolutiva.

Visto che Quota 41 potrebbe essere troppo costosa, nelle ultime settimane si è parlato anche di Quota 41 "light": un anticipo accessibile solo a chi aveva già versato almeno dodici mesi di contributi quando ha compiuto 19 anni.

Per casi simili già c'è l'opzione per lavoratori precoci. Quindi veramente non si capisce chi si andrebbe ad avvantaggiare.

Quota 103 quest'anno ha attirato pochissimi lavoratori, e in generale gli anticipi spesso non hanno avuto il successo che i vari governi avevano previsto. Perché?

Quando richiedi dei requisiti così elevati, che ti portano anche a ridurre la pensione, il numero di persone che possono trovare questa misura conveniente è molto limitato. Anche perché la platea a cui si rivolge Quota 41 è fatta da persone con un'esperienza lavorativa strutturata, che probabilmente hanno una maggiore capacità di stare sul mercato del lavoro. Non si parla di chi ha avuto una carriera più fragile, con periodi in nero, nel sommerso e quant'altro.

Cosa si sbaglia, quindi?

È un errore strutturale aver insistito sulle "Quote" senza capire che il mondo è cambiato con il passaggio dal retributivo al contributivo. Allo stesso modo, continuare a dire di alzare l'età pensionabile è senza senso, perché il sistema contributivo tiene già conto in automatico dell'età pensionabile: più è bassa, più è basso l'assegno. Quindi, nel contributivo, pensionarsi prima o dopo non ha impatto sul bilancio pubblico nel lungo periodo.

Allora perché si parla di aumentare l'età pensionabile?

Per cercare di ottenere risorse nell’immediato per le casse pubbliche.

In che senso?

Se ti alzo l'età pensionabile, tu vai in pensione dopo, e io per quest'anno non ti devo versare l'assegno. Poi chiariamoci: con il contributivo, come detto, se tu vai in pensione prima o dopo sul bilancio pubblico complessivo mi costi uguale. Tutto dipende dai contributi che hai versato. Ma dato che il bilancio pubblico italiano sta sempre a grattare il fondo del barile, anno per anno, si usano formule del genere. Spendo un po' di meno quest'anno, e l’anno prossimo si vedrà.

Come dovrebbe cambiare l'approccio alle pensioni?

Quello che si poteva fare già qualche anno fa era non prevedere delle "Quote" con requisiti di anzianità così alti, ma stabilire semplicemente che tu eri libero di andare in pensione da una certa età in poi, una volta superato un certo importo minimo della pensione (ad esempio, 1,5 volte l’assegno sociale). La riforma Dini nel 1995 poneva l’età pensionabile tra i 57 e i 65 anni. Adesso si sarebbe potuta prevedere una fascia di età più elevata. In più, per chi aveva ancora il retributivo, si sarebbe potuta prevedere una penalizzazione (solo sulla parte retributiva) se si voleva lasciare il lavoro in anticipo in modo da non comportare aggravi per il bilancio pubblico.

Così si sarebbero tutelate le persone che avevano condizioni effettive di svantaggio, che preferivano perdere magari un bel po' di pensione per poter lasciare il lavoro prima. Ma non è stato fatto, e così oggi per alcuni l'età pensionabile può essere troppo elevata. Il secondo problema del nostro sistema pensionistico, invece, è che i giovani faticano ad accumulare contributi.

Cosa c'è alla base dei problemi dei giovani con le pensioni?

Negli anni sono aumentati i contratti a termine, parziali, di breve periodo, con buchi contributivi, e soprattutto il part-time. Quindi c'è una quota enorme di lavoratori che dopo 15-20 anni di lavoro ha versato pochi contributi, e rischia di avere una pensione bassa anche dopo molti anni di lavoro. Ci sono dei sostegni contro la povertà, certo, ma il sistema pensionistico in sé non prevede nulla per evitare questa situazione.

Cosa si può fare per aiutare i giovani ad avere pensioni decenti?

Da anni parlo di pensioni di garanzia. L'idea è di inserire dentro il sistema contributivo un "pavimento" alla pensione, quindi l'assegno non può scendere sotto un certo livello. Questo pavimento minimo dovrebbe però essere coerente con la logica del contributivo, che tende ad incentivare chi lavora più a lungo. L’importo della pensione di garanzia dovrebbe quindi aumentare con l’età di ritiro e in base agli anni di attività (includendo fra questi anche i periodi di disoccupazione involontaria, maternità, formazione).

Una delle proposte che circolano per la prossima riforma delle pensioni, anche questa rivolta ai giovani, è di spingere a versare una parte del Tfr nei fondi pensione privati. Così, si dice, chi inizia a lavorare metterebbe da parte dei soldi per la pensione futura, ed eviterebbe di arrivare a fine carriera con un assegno troppo basso. Può funzionare?

Spostare il Tfr non può risolvere il problema delle pensioni basse. Il punto è che il Tfr è già dei lavoratori, quindi non è che stai dando nuove risorse a chi è pagato poco. È il gioco delle tre carte, sposti soldi da una parte all'altra, ma cambi poco. In più, il Tfr ce l'hanno solo i dipendenti. Tutti i lavoratori con forme più fragili non ce l'hanno.

In sostanza, stai decidendo che una parte piccolissima dello stipendio (il 25% del Tfr, quindi appena l'1,7% della retribuzione) deve andare alle pensioni. Quindi i lavoratori devono ridursi ulteriormente il reddito corrente oggi, in vista del futuro. Ma il Tfr non è solo salario differito per il futuro, dato che viene usato spesso dai lavoratori più fragili come ‘cuscinetto' tra un lavoro e l'altro, così attenuando i vincoli di liquidità dei lavoratori precari e poco pagati. Del resto, uno dei motivi per cui la previdenza integrativa [i fondi pensione privati, ndr] è usata da poche persone è proprio che i lavoratori più giovani e più fragili hanno poche risorse e hanno molte esigenze nell'immediato.

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