Ieri l’Italia, compresa la diretta interessata, si è svegliata con la notizia che Giuditta Pini non sarà candidata con il Partito democratico alle prossime elezioni. “Stare dentro un partito è complicato”, ha scritto la deputata su Instagram. “Può succedere che tu scopra che non sei più lista da un articolo di retroscena”. Qualche ora dopo, in seguito alla direzione del Pd che si è tenuta stanotte, è arrivata la conferma. Sin dal primo annuncio della deputata, le pagine social del Pd sono state inondate da commenti che esprimevano il disappunto per l’esclusione di Pini, una delle poche voci che provavano a cambiare il partito dall’interno. Di pari passo a questa esclusione ne è arrivata un’altra, o meglio: l’assegnazione di un collegio perdente (in cui c’è la certezza che la destra vincerà) alla senatrice Monica Cirinnà, firmataria del disegno di legge sulle unioni civili e tra le parlamentari più attive sul tema dei diritti LGBTQ+. Cirinnà, dopo un iniziale rifiuto a candidarsi, ha cambiato idea e ha deciso comunque di tentare il difficile compito.
Sarebbe scorretto dire che Pini e Cirinnà sono state escluse perché sono donne. I meriti politici, così come le eventuali sconfitte, non dipendono dal genere. Entrambe portavano istanze spesso in contrasto con la direzione del Pd e sollevavano temi scomodi e divisivi, come il matrimonio egualitario o il rifinanziamento della guardia costiera libica. Ma questo non basta a giustificare la loro esclusione, visto che in termini di puro calcolo politico avrebbero sicuramente portato molti voti al partito, e soprattutto non spiega la dinamica che ha portato il Pd a questa scelta auto sabotante. Vedere il nome di Pierferdinando Casini nel collegio di Bologna, dove i circoli locali del partito si sono vivacemente opposti, fa un certo effetto. Per l’ennesima volta, le donne pagano il prezzo di giochi di potere tutti al maschile.
Non stupisce: questa campagna elettorale è dominata da un machismo esasperante, sebbene sia la prima dove una donna, Giorgia Meloni, è fra i protagonisti. Tra i tira e molla autoreferenziali di Calenda e Renzi, parlamentari considerate solo in qualità di “mogli di” e lo stantio rincorrere la destra della direzione, tutta maschile, del Pd, il panorama è davvero desolante. Le donne sono scomparse, letteralmente e figurativamente. E non tanto in termini di numeri, visto che la legge elettorale garantirà le quote di genere, ma in termini di vera rappresentatività e interesse per le questioni di genere. Non ci accontentiamo più di avere in parlamento qualcuno che ci somigli. Vogliamo qualcuno che non abbandoni nemmeno per un istante i temi che incidono davvero sulle nostre vite: il gap salariale e la disoccupazione femminile, i congedi di maternità e paternità, la violenza di genere, le malattie croniche e invalidanti, il matrimonio egualitario, la lotta all’omolesbobitransfobia. Dobbiamo forse convincerci che un Di Maio, un Casini o un Cottarelli si interesseranno mai di queste cose?
Anche se nell’ultima legislatura abbiamo visto il parlamento con il più alto numero di donne mai eletto, che resta comunque inferiore al 50%, il messaggio che arriva dalla politica è che non è un posto per le donne. E fa ancora più rabbia che questo messaggio arrivi soprattutto dall’area progressista, che si mette in bocca parole come femminismo, diritti e parità per poi usare le quote di genere per eleggere più uomini, come avvenuto nel 2018, per assegnare alle donne ministeri marginali e per parlare al posto loro persino quando annunciano le proprie dimissioni. Perché ci sia impegno su questi temi, non basta avere una donna a caso qua e là per ripulirsi la coscienza o ammiccare a un femminismo superficiale: deve esserci una volontà politica trasversale e condivisa, anche dagli uomini. E perché questo avvenga è necessario rinunciare a un pezzettino del proprio privilegio, fosse anche quello di rendersi conto che non si può rappresentare tutti se si esclude per disinteresse, ignoranza e pregiudizio metà del proprio elettorato.
Non è una questione di nomi, ma di temi. L’esclusione di certe voci, decisa dall’alto e senza nemmeno informare i diretti interessati, è sintomatica delle priorità di un partito che punisce i propri elettori per i propri fallimenti, per non aver avuto mai il coraggio necessario di prendere posizioni radicali, per essere scivolato verso un centro che vuole accontentare tutti e finisce col non accontentare nessuno, se non i soliti. Non è nemmeno una questione di politicamente corretto, ma una questione di democrazia. Essere rappresentati significa avere pari dignità nell’interesse comune, ed essere scaricati per tornaconti elettorali, vedere le proprie battaglie costantemente rimandate perché “ci sono cose più importanti”, sentire vecchi che parlano di cosa hanno davvero bisogno i giovani non è avere pari dignità. Il 26 settembre, tutti questi nodi verranno al pettine.