Quello che Meloni non dice: non solo superbonus, dal lavoro all’ambiente il governo non ha risposte
Quello di Giorgia Meloni era stato annunciato come il primo governo politico, dopo anni di esecutivi "non eletti dal popolo" (sic). Dopo la vittoria alle elezioni, Meloni e i suoi dicevano: basta con i compromessi e le mezze risposte, avremo una linea politica precisa, di destra-centro, e soluzioni per problemi dell'Italia marcatamente alternative, rispetto a quelle di chi ci ha preceduto.
A quattro mesi dal suo insediamento, però, la premier ha pensato soprattutto ad attaccare nemici più o meno reali che ha messo via via nel mirino, come se fosse ancora una leader dell'opposizione. Ma al di là delle polemiche di facciata, Meloni non ha ancora offerto agli italiani un'idea precisa, per il futuro del Paese.
Cosa succede dopo lo stop al Superbonus
La conferma arriva dall'ultima polemica, quella sul Superbonus e gli altri benefit per l'edilizia. Non vogliamo entrare qui nella discussione sulla validità dell'intervento del governo, su cui è in corso un ampio dibattito. Ma è un fatto che, eliminando lo sconto in fattura e la cessione del credito, l'esecutivo ha lasciato in campo una misura mozzata, di cui potrà beneficiare chi ha i soldi per anticipare le spese dei lavori e un reddito così alto, da poter scalare dalle tasse il credito d'imposta, riconosciuto dalle ristrutturazioni. Insomma, se l'accusa al Superbonus era quella di aiutare anche i ricchi, ora ci troviamo con dei bonus, che sono destinati solo i ricchi.
Rimane il problema che una larga parte degli gli edifici pubblici e privati della Penisola sono vecchi e inefficienti e causano un'ampia fetta delle emissioni di CO2, prodotte nel nostro Paese. Di fronte a questo, il governo non trova di meglio che attaccare la direttiva dell'Unione europea, che fissa gli standard energetici per le abitazioni, da raggiungere entro il 2030. Quelli obiettivi sono considerati irraggiungibili dal governo, ma non si capisce quale sia il piano alternativo per l'edilizia suggerito dall'Italia.
Stesso discorso, sulle automobili. I membri dell'esecutivo – Salvini in testa – si sono scagliati contro la normativa europea, che fissa lo stop alla vendita di auto a benzina e diesel, nel 2035. Di nuovo, non vogliamo qui discutere il merito della proposta, ma fare una domanda: cosa chiede invece l'Italia? Se le auto non vanno toccate, le case neppure, come pensa il governo Meloni di raggiungere gli obiettivi di contenimento delle emissioni, fissati dai trattati internazionali? Se invece l'esecutivo ritiene che quella della transizione energetica non sia una priorità, lo dica apertamente. Sarebbe almeno un modo per giocare a carte scoperte.
Le sfide europee
Invece, Meloni taccheggia, divisa tra Macron e Bolsonaro, tra Biden e Orban. Prendiamo i dossier economici, partendo dal più importante, il Pnrr. I ministri Fitto e Giorgetti hanno spiegato in lungo e in largo, cosa non ha funzionato. Molto meno hanno raccontato, su quello che vogliono cambiare. Dice Fitto – l'uomo con in mano le redini del piano di ripresa e resilienza -, che il nuovo piano lo vedremo il 30 aprile, quando il governo sottoporrà all'Unione europea le proposte di modifica.
Facciamo a fidarsi, insomma. E però forse sarebbe stato necessario un minimo dibattito pubblico, prima di decidere quali progetti chiediamo di eliminare dal Pnrr, quali altri vogliamo inserire, con quali motivazioni. Invece no, tutto si farà al chiuso delle segrete stanze di palazzo Chigi. Chissà se dai banchi dell'opposizione, Meloni sarebbe stata d'accordo con questo metodo di procedere.
La partita sul Pnrr non è l'unica che il governo si gioca in Europa. In questi mesi, è aperto il dibattito sulla riforma del patto di stabilità, le famose regole di Bruxelles, che mettono i lacci ai conti pubblici italiani. Il patto è sospeso fino alla fine del 2023, dopodiché dovrebbe tornare in vigore, ma con meccanismi diversi, rispetto al passato. Meloni e Giorgetti hanno fatto sapere che il patto di stabilità, così come è, non va bene. Al momento, però, non risulta depositata sulle scrivanie europee, una proposta di revisione, avanzata in via ufficiale dal nostro governo.
Dopo il reddito, il nulla
La strategia dell'attesa, d'altra parte, era chiara fin dalla manovra dello scorso autunno. "Siamo arrivati da poco, dobbiamo muoverci nel solco di Draghi", spiegavano gli esponenti della maggioranza. Con un'unica notevole eccezione:l'abolizione del reddito di cittadinanza. Anche qui, non vogliamo discutere il merito della scelta. Ma dobbiamo sottolineare come la ministra del Lavoro Calderone aveva annunciato un nuovo decreto, da varare entro la fine di gennaio, per riscrivere i meccanismi di formazione e inserimento del mondo del lavoro. Siamo oltre la metà di febbraio e di quel provvedimento non c'è traccia.
Persino sui cavalli di battaglia di sicurezza e immigrazione, Meloni per adesso ha giocato sulla difensiva. Ci ha spiegato cosa non possono fare le ong e come si debbano contrastare i rave illegali, ma ancora non ha offerto una visione complessiva sulle politiche di ordine pubblico o sui flussi migratori, con il blocco navale che sembra ormai archiviato, come irrealizzabile promessa, da campagna elettorale.
Il governo di destra-centro gode di una maggioranza ampia, un consenso ancora forte tra gli elettori,come hanno confermato anche le recenti Regionali. Può sfruttare anche le divisioni interne alle forze di opposizione. Eppure, nella narrativa di Meloni e i suoi, ci sono solo totem del passato da abbattere, nemici da sconfiggere, ostacoli da scavalcare. Nei prossimi mesi però le emergenze su lavoro, ambiente, economia, politiche europee etc busseranno alla porta sempre più forte. Prima che accada, sarebbe l'ora che la premier spieghi come intende affrontarle. E poi, magari, inizi anche a farlo davvero.