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Quello che il ministro Poletti non capisce sui 3 mesi di vacanza degli studenti

Dietro la “provocazione” del ministro Poletti un ragionamento fatto di banalità e luoghi comuni. Che, per giunta, svilisce il legittimo diritto all’ozio degli studenti (e non solo), inteso nel senso dell’otium latino, cioè di ricerca intellettuale e morale.
A cura di Roberta Covelli
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È  notizia degli ultimi giorni che i figli del ministro Poletti, nelle loro estati da adolescenti, scaricavano casse al magazzino della frutta. Normalmente, questa informazione non sarebbe stata altro che una frase come “Eh, signora mia, il mio ragazzo quest'estate lo mando in un college nello Yorkshire che mi migliora l'inglese”: un discorso buono insomma per una rimpatriata tra coscritti, con il tipico tono dei genitori ormai arrivati, convinti della perfezione delle proprie scelte educative e dell'equilibrio psicofisico dei propri figli. Ma l'adolescenza dei giovani Poletti è diventata qualcosa di più: non solo perché le frasi provenienti da pulpiti istituzionali assumono sempre valenza politica a prescindere dall'intenzione di chi le pronuncia, ma anche perché il ministro ha deciso di generalizzare l'esperienza dei suoi figli per affermare che i tre mesi di vacanza concessi agli studenti italiani sarebbero troppi e auspicare una discussione sul tema.

Il ragionamento di Giuliano Poletti si basa però su una serie di equivoci e luoghi comuni. Innanzitutto, lasciar intendere che il periodo estivo sia esclusivamente un momento di ozio per gli adolescenti è una semplificazione: secondo i dati Istat, ad esempio, il 10% dei giovani tra i 14 e i 24 anni svolge attività di volontariato (cioè “attività gratuite a beneficio di altre persone, della comunità o dell’ambiente”) continuativamente durante l'anno. Dunque, si può supporre che almeno un ragazzo su dieci svolga un'attività utile per la comunità pure nei mesi di vacanza, anche se mancano statistiche dedicate esclusivamente al periodo estivo, durante il quale peraltro le proposte di volontariato sembrano riscuotere un certo successo, come nel caso dei campi di Libera o delle varie iniziative in ambito di cooperazione internazionale. I dati sul volontariato non comprendono poi le attività che non sono rivolte direttamente a un fine sociale, dunque non sono calcolate tutte quelle occupazioni che, per citare la Costituzione, concorrono “al progresso materiale o spirituale della società”, come dedicarsi allo sport o all'arte, viaggiare e sperimentare, ampliare la propria cultura.

L'esempio familiare di Poletti è inoltre logicamente riduttivo: l'esperienza dei figli del ministro non può costituire metro per misure da proporre all'insieme degli studenti italiani, semplicemente perché quei ragazzi non sono necessariamente rappresentativi dei loro coetanei. Bisogna forse scomodare la coscienza di classe per ricordare che i figli del re delle cooperative, nelle loro estati adolescenziali, hanno svolto un lavoro che difficilmente toccherà loro per il resto della vita: hanno scaricato cassette di frutta per qualche mese, ma il padre nel contempo ha garantito loro strumenti per ambire a ben altre posizioni. È una colpa? No, ma non è nemmeno un merito.

Infine, è sbagliata la cura, generalizzata a qualunque giovane studente: perché il lavoro manuale, se nobilita, non arricchisce tutti allo stesso modo e ogni ragazzo reagisce diversamente agli stimoli che gli vengono proposti.

Resta poi da chiedersi che cosa si intenda per attività estiva per ragazzi, specie guardando alle idee di questo governo: tra Jobs act e #buonascuola, si fa infatti sempre più fatica a recepire le esternazioni dei ministri senza cercare il secondo fine che le guidi. Da un lato, infatti, se le attività estive si dovessero svolgere a scuola, gli studenti sarebbero relegati negli edifici fatiscenti o nelle aule assolate che occupano durante l'anno: a fornire loro formazione sarebbero i professori sottopagati e precari oppure fondazioni private, finanziate con sponsor ma anche con fondi pubblici? In alternativa, se il lavoro estivo avvenisse in azienda, la preoccupazione riguarderebbe i diritti e il potere contrattuale che (non) avrebbero gli studenti: difficile sarebbe non vedere in una situazione simile l'ennesimo scatto nella corsa al ribasso di salari e tutele per i lavoratori.

Il discorso è però più profondo dei dubbi relativi alla genuinità intellettuale della provocazione di Poletti. Riguarda la scuola che si trasforma in semplice formazione occupazionale, con l'unico obiettivo di garantire un posto di lavoro (come peraltro ammesso fieramente dal ministro Giannini). È questa una concezione riduttiva e svilente dell'istruzione che è innanzitutto educazione al pensiero e che deve crescere persone, non robot con l'unico fine di servire al mercato del lavoro: non tutto il tempo è da monetizzare, da sfruttare economicamente e il lavoro è un mezzo di vita, non il suo fine ultimo.

E allora soprattutto i giovani (che comunque non sono fannulloni, choosy e bamboccioni più delle generazioni che li hanno preceduti) hanno il legittimo diritto all'ozio, inteso nel senso dell'otium latino, cioè di ricerca intellettuale e morale. Un adolescente, probabilmente destinato a un'età adulta frenetica e segnata dal precariato endemico, ha il diritto di fermarsi, coltivare i propri interessi e conoscere sé stesso. Deve poter avere del tempo per scoprire i suoi talenti e imparare come valorizzarli, deve poter leggere libri per il solo piacere della cultura e ha il diritto di scorrazzare in bicicletta per sentire il vento sulla pelle.

E la responsabilità? È necessaria, certo, ma si costruisce solo liberamente: i ragazzi non devono essere responsabilizzati da un'autorità esterna, ma devono responsabilizzarsi, da soli, guidati e aiutati, ma lasciati liberi di scegliere. Quei tre mesi estivi, di stimoli umani e intellettuali, non sono che uno spazio di autogestione della propria vita: una forma di responsabilità e quindi un modo per essere liberi. Sarà per questo che dà così fastidio ai nuovi padroni di questa società in corsa.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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