La grande attesa per il discorso di Napolitano al Quirinale è stata parzialmente ripagata dalle sue dichiarazioni. Certo, sarà rimasto deluso chi si attendeva una data più o meno precisa per le sue dimissioni dalla Presidenza della Repubblica, ma il suo discorso ha definitivamente chiarito una serie di questioni di grande rilevanza. Prima di tutto Napolitano ha ribadito il suo appoggio convinto alla linea del Presidente del Consiglio, (ri)legittimandolo politicamente e sostenendo in maniera fin troppo chiara il percorso di riforma della Costituzione avviato in questa legislatura. In questo senso il Capo dello Stato, forzando peraltro alcuni concetti, ha insistito sulla ineludibilità del superamento del bicameralismo paritario e non ha lesinato stoccate all’opposizione e alla stessa minoranza del Partito Democratico.
C’è poi un doppio binario sul quale Napolitano imposta il suo endorsement verso Renzi: il lavoro in Europa per il superamento “dell’asfissiante austerity” (con tanto di elogio per i risultati conseguiti dal nuovo corso) e l’azione riformista dell’esecutivo, su fisco e lavoro. Un’analisi portata fino alle estreme conseguenze, con le stoccate al Sindacato e all’opposizione parlamentare, fino ad arrivare alla legittimazione concettuale della rottamazione e ad una specie di esaltazione del decisionismo di stampo renziano. Insomma, al netto di qualche benevolo rimprovero sull’abuso della decretazione d’urgenza e delle questioni di fiducia (che peraltro non si è mai tradotto in atti formali, neanche sui “decreti omnibus”), lo stesso Matteo Renzi non avrebbe saputo immaginare un discorso più favorevole. Soprattutto perché le parole d’ordine diventano ora: stabilità, continuità, decisionismo.
Solo in questo contesto è possibile ipotizzare una risoluzione a breve della questione “successione”. Il Capo dello Stato ha prima di tutto chiarito che intende portare a termine il suo percorso di “accompagnamento” del semestre di Presidenza dell’Unione Europea, che scadrà il 13 gennaio. Dopo quella data è immaginabile che cominci il percorso di uscita, che sarà però graduale e subordinato alla risoluzione della “grana Italicum”. L’approvazione della legge elettorale è infatti condizione essenziale alla “stabilizzazione”, almeno nella lettura del Capo dello Stato: ecco perché si giudica indispensabile che sull’Italicum si proceda a tappe forzate. Il punto è che in Commissione il provvedimento è bloccato da oltre 15mila emendamenti e, senza una prova di forza del Governo, il rischio è che passino mesi. La palla è però di nuovo nel campo di Forza Italia, che spinge perché si elegga prima il nuovo Capo dello Stato: un circolo vizioso dal quale Renzi proverà ad uscire riaprendo (o fingendo di riaprire) un canale di comunicazione col M5S e cercando una sponda anche in casa leghista (è la Lega ad aver presentato la gran parte degli emendamenti all’Italicum, ma è la stessa Lega che potrebbe beneficiare della vecchia struttura della legge se il dato dei sondaggi fosse confermato e se Renzi manifestasse l’intenzione di tornare al voto in tempi brevi).
E dunque? Dunque l’ipotesi di lasciare il 13 di gennaio (con elezione del successore verso la fine del mese) resta eventualità molto remota e subordinata ad un nuovo patto di non belligeranza fra Pd, Forza Italia e Lega Nord. Certo, non è escluso che Napolitano annunci le dimissioni proprio durante il discorso di Capodanno, che sarà comunque l'ultimo da Capo dello Stato, ma sulle tempistiche (elezione del successore entro il 30 gennaio) non c'è da scommettere (qui vi avevamo anticipato il percorso di questi giorni…). Sul nome condiviso poi la partita è ancora aperta e lo stesso Napolitano non ha fatto altro che suggerire un termine: continuità. Niente nomi di parte, hanno interpretato in molti: no a Prodi, insomma. Ma anche niente figure “esterne”: no a Draghi, secondo altri. E allora? A Berlusconi e Renzi l’ardua sentenza.