“Basta con questa RAI – lo dico con molta franchezza il giorno del confronto – che si fa dettare la linea dai portavoce di partito, che nomina i direttori tenendo conto del bilancino, che spende male i propri soldi e le proprie professionalità, se vinciamo noi la Rai farà servizio pubblico, senza consultare le segreterie dei partiti”. Così scriveva Matteo Renzi nel novembre del 2012, nel pieno della campagna per le primarie del Partito Democratico che incoronò Pier Luigi Bersani, il quale poi avrebbe "non perso" alle politiche del febbraio 2013. Era il Renzi della rottamazione, del merito, del rovesciamento delle scrivanie, del sovvertimento della prassi politica, dell'innovazione formale e sostanziale. Era il Renzi che voleva modernizzare la macchina dello Stato, aprire le stanze della politica per svelare inciuci e accordicchi, cambiare passo al PD e trascinarlo fuori da logiche correntizie o di bottega.
Poi, si sa, le cose cambiano. E certo non sarebbe nemmeno giusto generalizzare, parlando di fallimenti, delusioni o promesse non mantenute senza riferimenti concreti, precisi, definiti.
Però qualche domanda viene da farsela, ogni tanto. Come in occasione delle nomine per le aziende partecipate dallo Stato. O come adesso che è toccato alla Vigilanza nominare i nuovi consiglieri di amministrazione della Rai, dopo la figuraccia della maggioranza sulla riforma della Rai e la fretta nel procedere all'elezione del nuovo Cda con la Gasparri (possibile essersi accorti solo ora che era scaduta anche la proroga del vecchio Cda?).
Che ne è stato di rottamazione, meritocrazia, indipendenza e innovazione? Piazzare nel Cda i propri fedelissimi o i sempreverde della poltrona corrisponde all'idea che il PD renziano ha della meritocrazia? Prendersi le tre poltrone a colpi di maggioranza mostrando i muscoli alla minoranza è l'idea che ha il PD di rifiuto della lottizzazione? Escludere figure "tecniche", giovani e non legate ai partiti sarebbe innovazione?
Si dirà, con la legge Gasparri era inevitabile che finisse così. No, affatto. In primo luogo perché chi si è speso per mesi in proclami contro la Gasparri è stato proprio il Presidente del Consiglio. In secondo luogo perché l'alternativa c'è sempre: premiare competenza e indipendenza, magari favorire il ricambio generazionale, immettere nuove energie nel servizio pubblico. Infine perché, se passasse questa scusante, allora bisognerebbe valutare bene prima di votare una riforma che non sottrae affatto il Cda al controllo dei partiti, dal momento che con le nuove norme 4 nomi su 7 verrebbero votati direttamente dal Parlamento e 2 indicati dal Governo (quindi dalla maggioranza).