Quando Berlusconi inviò milioni di lettere per votare “Sì” al referendum costituzionale
Quanti ricordano che dieci anni fa ci fu un referendum costituzionale consultivo con cui si sarebbe dovuta approvare la riforma della seconda parte della Costituzione? Il quesito proposto era questo: "Approvate il testo della Legge Costituzionale concernente ‘Modifiche alla Parte II della Costituzione' approvato dal Parlamento e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 269 del 18 novembre 2005?".
La legge di revisione costituzionale, ratificata a maggioranza assoluta dal Parlamento, era stata sottoposta alla richiesta di conferma da più di un quinto dei membri di una delle Camere, da più di cinquecentomila elettori e da più di cinque Consigli regionali. Fu, perciò, necessario convocare il secondo referendum costituzionale della storia repubblicana. Il primo era avvenuto nel 2001 per suffragare la modifica del Titolo V della Carta costituzionale.
La riforma in sintesi prevedeva undici punti:
1) Devoluzione alle regioni della potestà legislativa esclusiva in alcune materie come organizzazione scolastica, polizia amministrativa regionale e locale, assistenza e organizzazione sanitaria;
2) Alcuni ambiti (lavoro, tutela della salute, reti strategiche di trasporto, ordinamento della comunicazione, delle professioni intellettuali e dello sport e la produzione di energia) sarebbero tornati di esclusiva dello Stato centrale;
3) Fine del bicameralismo perfetto con la suddivisione del potere legislativo tra Camera dei Deputati e Senato Federale: la prima avrebbe discusso le leggi di ambito nazionale e il secondo le leggi regionali concorrenti con lo Stato;
4) Riduzione del numero dei deputati (da 630 a 518) e dei senatori (da 315 a 252);
5) Aumento dei poteri del Primo Ministro con il cosiddetto "Premierato";
6) Clausola contro i cambi parlamentari di maggioranza e obbligo di nuove consultazioni popolari in caso di caduta del governo, salvo la sfiducia costruttiva con indicazione di un nuovo Premier e senza cambi di maggioranza;
7) Clausola di Interesse nazionale ovvero di veto nei confronti di legislazioni regionali in contrasto con la programmazione degli obiettivi nazionali;
8) Principio di sussidiarietà: lo Stato avrebbe potuto sostituirsi alle Regioni in caso di mancata emanazione di norme essenziali;
9) Il Presidente della Repubblica sarebbe stato il «garante dell'unità federale della Repubblica»;
10) La Corte Costituzionale avrebbe visto aumentare i giudici di nomina parlamentare da 5 a 7;
11) Roma capitale avrebbe ottenuto alcune forme di autonomia normativa.
In vista del referendum Giovanni Sartori scrisse sul “Corriere della sera” (21 maggio 2006): «Dobbiamo davvero cambiare ab imis la costituzione vigente? L’argomento dei “cambisti” è che chi difende la costituzione del ’48 è un “conservatore”, un invecchiato, un sorpassato, sordo alle esigenze del progresso. Ma questo è uno slogan di bassa e sleale propaganda. Alla stessa stregua è conservatore il medico che ci conserva in vita, il pompiere che ci conserva la casa che sta bruciando e l’ecologista che si batte per conservare un’aria pulita. Scorrettezze polemiche a parte, il discorso serio è che cambiare una buona (relativamente buona) costituzione per una cattiva costituzione è un “cambismo” stolto e dannoso».
Il 3 giugno Franco Bassanini e Leopoldo Elia sullo stesso giornale scrissero: «La priorità assoluta è dunque la vittoria del No. In caso contrario, prevarrebbe la conservazione: la conservazione di una riforma sbagliata e ingestibile. La vittoria del NO non sbarra la strada a riforme diverse da quella bocciata dal referendum. Ne è prova il fatto che i partiti dell’Unione, co-promotori del referendum, hanno tutti sottoscritto un programma che, accanto a una forte e motivata scelta per il No nel referendum, contiene un significativo elenco di riforme istituzionali utili, impegnandosi a proporle alla opposizione in un confronto aperto. Il NO per “salvare la Costituzione” è dunque un impegno a difendere i principi e i valori fondamentali della Costituzione repubblicana da una riforma che può comprometterli; ma anche un impegno per riforme istituzionali che possono agevolare la realizzazione di quei principi e quei valori, la concreta attuazione dei diritti e delle libertà, della dignità di ogni persona affermati nella Costituzione».
Berlusconi, pur essendo stato battuto dalla coalizione dell’Unione guidata da Romano Prodi, reagì a suo modo: inviò alcuni milioni di lettere ai cittadini per spiegare i contenuti del progetto di riordino in senso federale dello stato, proseguì con l’affissione di cinque milioni di manifesti e con raduni di piazza e spot in televisione. Infine coniò lo slogan: «L’Italia del sì contro l’Italia del no», cercando di personalizzare lo scontro in modo da poter entrare trasversalmente nella partita.
Il 13 giugno Sartori tornò all’attacco lamentando l’informazione ingannevole della Tv: «Il referendum è indetto, e il dovere della Rai come servizio pubblico è di spiegarlo onestamente e imparzialmente… Ma il nuovo vincitore [l’Unione ndr] continua a sonnecchiare, consentendo così che il referendum costituzionale sia gestito, senza nemmeno cambiare un guardalinee, dalla tv colonizzata da Berlusconi… Eppure sino al momento nel quale scrivo il consiglio di amministrazione della Rai e il suo presidente Petruccioli hanno fatto finta di non vedere che “mamma Rai” sta disorientando gli italiani con un’informazione che è, in realtà, disinformazione».
Il 19 giugno intervenne Romano Prodi: ««Vogliamo guardare con fiducia al nostro futuro e per questo chiedo, il 25 e 26 giugno, di andare a votare e votare no per togliere di mezzo questo brutto pasticcio». «Con la riscrittura di più di un terzo degli articoli della Costituzione – sosteneva il Presidente del Consiglio – sono stati messi in serio pericolo valori e principi contenuti nella prima parte della nostra Carta fondamentale, quali l'unità del Paese e l'uguaglianza dei diritti dei cittadini».
Il cavaliere tre giorni dopo, in un’assemblea pubblica del Comitato per il SI, usò toni duri: «Non credo che possa sentirsi degno di essere italiano chi domenica e lunedì non sarà andato a dare il suo Si all’ammodernamento della nostra Costituzione, a una riforma che darà a questo Paese più democrazia e libertà». Una dichiarazione che ricordava molto quella usata nello scorcio finale della campagna per le politiche, quando disse, davanti ai commercianti, che sarebbe stato da «coglioni votare a sinistra». Salvo poi correggersi affermando che era «indegno solo chi non va a votare».
Prima del silenzio elettorale l’ex Capo della Stato, Carlo Azeglio Ciampi, dichiarò: «…andrò a votare al referendum, perché sono un cittadino italiano. E voterò "no", per difendere la nostra Costituzione, che è bella, è viva e più attuale che mai… nel corso del mio settennato la Costituzione è sempre stata la mia Bibbia civile. E continuerà ad esserlo».
Alla fine dello spoglio l’affluenza sarà del 52,3% (anche se per i referendum costituzionali non c’è bisogno del raggiungimento del quorum). La vittoria del NO era stata schiacciante: 61,3% e incredibilmente furono il Sud e le isole a trainare il risultato portando in dote nel primo caso il 74,8% e nel secondo caso il 70,6%. Al nord (dove agivano la Lega e con maggiore vigore Berlusconi) il NO conquistava un risicato: 52,6%. Al centro, invece, l’affermazione era più netta: 67,7%.
Nell’editoriale de Il Manifesto “La favola è finita” si leggeva: «il paese “spaccato in due” della retorica postelettorale di poche settimane fa ha ritrovato una sua fondamentale unità, irrispettosa del bipolarismo coatto. Ha detto No all'egoismo sociale, al mito del Capo e alla servitù volontaria che nelle intenzioni dei riformatori avrebbero dovuto sostituire i principi della solidarietà, dell'uguaglianza, della rappresentanza scritti in Costituzione… Sulla posta in gioco cruciale e ultimativa, quella del sovversivismo costituzionale della destra estranea al patto del '48, il paese ha messo l'alt. Ma l'ha messo anche sul vizio di giocare col fuoco della revisione che incanta al centro e a sinistra anche gli eredi di quel patto. Che i loro leader provassero a incassare la vittoria del No come un'autorizzazione a procedere sulla strada delle riforme perseguita in passato era del tutto scontato; e tuttavia suona oggi del tutto stonato. Quel No ha un altro suono. Rilegittima una Costituzione che anche loro hanno colpevolmente contribuito a delegittimare».
Dopo dieci anni siamo punto e daccapo. Chi vincerà questa volta il NO o il SI?