Può essere che lo scorpione finirà per pungere la rana sul cui dorso attraversa il fiume, perché quella è la sua natura. Può essere, fuor di metafora, che Silvio Berlusconi decida di vendicarsi di Giorgia Meloni, del suo mettersi di traverso di fronte alle richieste del vecchio sovrano del centro destra, del suo rispondere sprezzante alle sue rimostranze, della sua convinzione di poter fare a meno della sua benedizione.
Può essere che accada, che ci provi a far valere il suo 8% di voti, dei suoi 22 deputati e dei suoi 9 senatori, decisivi per tenere in vita la maggioranza di destra che sostiene l’esecutivo. Può essere, ma tutto lascia pensare che non accadrà. E il discorso di ieri sera al Senato, quello del ritorno a Palazzo Madama dopo nove anni di Purgatorio, quello dell’happy ending, lo conferma inesorabilmente.
Perché il Silvio Berlusconi di ieri sera, il nonno di diciassette (o sedici) nipoti, il padre del centro destra di governo, il dispensatore di miracoli e di mediazioni tra Stati Uniti e Russia, non fa più paura a nessuno, tantomeno a Giorgia Meloni. Perché del Silvio Berlusconi che ha polarizzato un intero Paese, con lui o contro di lui, quello in grado di decretare la nascita e la morte di governi, di fare e disfare patti con le opposizioni, di disporre dei destini di intere legislature, è rimasto poco o nulla.
Quel che è rimasto è lo stanco leader di un piccolo partito balcanizzato, che si dividerebbe nel momento in cui lui stesso decidesse di smettere di sostenere Giorgia Meloni. Che è costretto a giocare con gli appunti e gli audio “rubati” per mal celare le sue antipatie e il suo disappunto. Che si è ridotto a dover abiurare pubblicamente le sue idee sulla guerra e la pace tra Russia e Ucraina, dicendo tutto e il contrario di tutto nel giro di poche ore. Che è costretto a offrire il suo “entusiasta” sostegno a una leader che non si è presa nemmeno la briga di citare, nel suo discorso, nemmeno una delle deleghe dei ministri di Forza Italia, e che con ogni probabilità non darà a Berlusconi i sottosegretari che vuole, né come numeri né come nomi.
Quel che è rimasto di Silvio Berlusconi è il simulacro di un leader che prova ancora a dare le carte, a cui ormai si è ridotto a credere solamente lui, e quei pochi la cui piaggeria ne alimenta l’ego. Ed è forse il più plastico segno dei tempi che cambiano, l’altra faccia della loro medaglia, assieme alla sagoma di Giorgia Meloni che si staglia dallo scranno più prestigioso di Camera e Senato. Uno scranno che per la prima volta nella storia del centrodestra – o della destra – non accoglie più la sua sagoma e il suo doppiopetto blu.
La fine di Berlusconi è la fine del centrodestra come lo conoscevamo, e con ogni probabilità è l’inizio di una storia nuova. Una storia in cui rimane la destra, più forte che mai, mentre il centro appare contenibile per la prima volta, con Renzi e Calenda pronti ad accogliere altri transfughi del vecchio sovrano in declino, e chissà, forse pure a sostituirlo come ago della bilancia della maggioranza. Una fine di cui tutti sembrano essersi accorti tutti, tranne lui. Perché sì, lo scorpione sa che la sua natura è quella di pungere la rana su cui attraversa il fiume. Anche se la puntura non fa più male, anche se il veleno non c’è più.