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Punire il dissenso e calpestare la logica: ecco la riforma penale della destra di governo

Tra garantismo per i potenti e repressione dei dissidenti, gli emendamenti leghisti al ddecreto Sicurezza ignorano perfino i princìpi di base del diritto penale.
A cura di Roberta Covelli
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Il diritto penale, nelle recenti proposte della destra al governo, sembra muoversi verso due poli opposti: garantismo per chi detiene un potere, repressione per chi il potere non ce l’ha. Le misure approvate o proposte negli ultimi giorni lo confermano: se da un lato, con l’approvazione del ddl Nordio si abolisce l’abuso d’ufficio, ridefinendo anche il reato di traffico di influenze, dall’altro lato la Lega propone di inasprire una serie di reati spesso contestati ai manifestanti.

Gli emendamenti al ddl Sicurezza tra aggravanti e repressione

Le proposte sono principalmente tre. Si aggiunge una circostanza aggravante comune, che vale per tutti i reati, e che inasprisce le pene nel caso in cui il fatto sia commesso "all'interno o nelle immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie e delle metropolitane o all'interno dei convogli adibiti al trasporto di passeggeri". Si inasprisce ulteriormente la sanzione prevista per il blocco stradale o ferroviario, prevedendo fino a due anni di carcere in caso di manifestazione di gruppo. Si introduce una nuova aggravante speciale per i reati di resistenza o di violenza e minaccia a pubblici ufficiali o a corpi politici, che si attiva "se la violenza o minaccia è commessa al fine di impedire la realizzazione di un'opera pubblica o di un'infrastruttura strategica".

Di fronte alla preoccupazione delle opposizioni, il sottosegretario Molteni si affretta a minimizzare l’impatto di queste modifiche, spiegando che "non si sanziona il dissenso ma la violenza o la minaccia". E assicura anche che "si può dissentire ma nel rispetto delle regole, noi non ce la prendiamo con i manifestanti ma con i violenti".

La dichiarazione del sottosegretario non regge. Primo, perché le sanzioni per violenza e minaccia già esistono: quel che fa questa modifica è inasprirle sulla base del dissenso politico (violando anche, come vedremo, un paio di princìpi di base del diritto penale). Secondo, perché una caratteristica essenziale delle recenti riforme in materia di ordine pubblico e diritto penale è l’aumento della discrezionalità nell’applicazione, anche provvisoria, delle regole: la differenza tra manifestante e violento rischia così di dipendere da scelte arbitrarie.

La strategia penale degli ultimi anni è l'allargamento dello spazio di discrezionalità

Negli ultimi anni, dal decreto Minniti a quelli di Salvini, dal decreto antirave al decreto Caivano, sono state inasprite le pene per alcuni reati e sono aumentate le ipotesi di ricorso alle misure di sicurezza e prevenzione, con cui si limitano le libertà delle persone in base alle valutazioni di pericolosità sociale da parte delle forze di polizia.

In particolare, l’aumento delle pene, con la previsione di aggravanti varie (da quelle per "manifestazione in luogo pubblico" alle proposte attualmente in discussione), non ha effetto solo sulla (eventuale) condanna, ma già immediatamente dopo il fatto, per la facoltà di arrestare gli accusati. Perché si possa arrestare qualcuno in flagranza di reato, è infatti necessario che il delitto sia sufficientemente grave e infatti l’articolo 381 del codice di procedura penale prevede la facoltà di arresto per i delitti non colposi per cui sia prevista una pena superiore nel massimo a tre anni.

Questo significa che, in caso di resistenza a pubblico ufficiale (reato spesso contestato anche per condotte poco offensive come i sit-in di protesta), nel caso in cui il dissenso riguardi grandi opere, come il Ponte sullo Stretto o la Tav, le autorità di pubblica sicurezza avranno la facoltà di procedere all’arresto in flagranza dei manifestanti. Sarà poi certo un giudice, dopo diverse ore, a decidere sulla legittimità dell’arresto, ma intanto la repressione è stata anticipata secondo le valutazione delle forze dell’ordine, che restano, è il caso di ricordarlo, dipendenti dal potere esecutivo, cioè dal Governo.

Offensività e proporzionalità: le regole di base del diritto penale liberale

Al di là del rischio che la repressione anticipata si traduca in intimidazione, ci sono un paio di princìpi che le proposte penali della destra al governo trascurano: l’offensività e la proporzionalità.

Dal momento che la risposta pubblica al reato è la privazione della libertà personale, la definizione delle fattispecie che danno luogo a una pena deve essere particolarmente precisa e non può riguardare idee, sentimenti, attitudini, ma solo fatti offensivi e antigiuridici. Secondo il principio di offensività, quindi, sono reati soltanto quei fatti che creano danno o mettono in pericolo dei beni giuridici (la vita, l’integrità personale, la libertà, il patrimonio…) e per i quali si ritenga opportuna una punizione. La punizione però non deve essere arbitraria, ma deve corrispondere al livello di gravità del fatto commesso, secondo il principio di proporzionalità.

Se immaginiamo qualche ipotesi di reato, accostandola alle proposte presentate, l’assurdità delle modifiche appare in tutta evidenza. Davvero un omicidio commesso in stazione è più grave dell’omicidio commesso in un bosco? La vittima è meno morta, qualora venga uccisa lontano dalle linee ferroviarie? Qual è la differenza tra un reato e l’altro, tale da giustificare un’aggravante? O, ancora, la resistenza a pubblico ufficiale è forse più pericolosa se chi la commette è un manifestante che si oppone alla costruzione del Ponte sullo Stretto? L’offesa in questione sarebbe meno grave se a commetterla fosse un ladro in fuga, o uno stupratore, o un fascista, che manifesta facendo il saluto romano ma se ne frega delle infrastrutture strategiche?

Sia chiaro: ci possono essere differenze di sanzione, attraverso circostanze attenuanti e aggravanti, ma devono essere ragionevoli e rispondere ai princìpi di offensività e proporzionalità.

Questi princìpi, tra l’altro, non sono una novità democratica della Costituzione antifascista (su cui comunque giurano ministri e sottosegretari). Si tratta invece di pilastri del diritto penale elaborati già tra il Settecento e l’Ottocento, e accolti, pur con applicazioni discutibili e con un ordine di priorità opposto a quello democratico, persino dal regime fascista. Che parlamentari e sottosegretari propongano norme penali illogiche è un atteggiamento preoccupante, che mina alla base i diritti di libertà e la ragionevolezza delle regole.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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