E dire che sembrava averci abituato a tutto, questa folle diciottesima legislatura della Repubblica Italiana: alleanze impossibili, impeachment al Presidente della Repubblica annunciati in diretta su Facebook, premier spuntati dal nulla, ministri dell’interno che chiedono pieni poteri dalle piazze, movimenti anti élite e anti europeisti che sostengono il governo del tecnocrate europeista per eccellenza. Il tutto, nel contesto di una pandemia globale e in uno stato di perenne emergenza, che tuttora perdura e che miete centinaia di vite al giorno, con buona pace di chi ci racconta da mesi che ormai ne siamo fuori. Insomma, con questi precedenti aspettarsi qualcosa di normale sarebbe stato quantomeno ingenuo. Ma in questo stato, ci saremmo comunque aspettati qualcosa di simile a una presa di coscienza collettiva della classe politica di evitare spettacoli indecorosi nella scelta del successore di Sergio Mattarella.
Sono passati due giorni e due votazioni, e abbiamo già perso qualunque barlume di speranza. Al contrario, sembra che tutte le parti in commedia abbiano scelto il conclave quirinalizio per mettere in mostra una specie di medley di tutto il peggio di questi anni grotteschi: forzature istituzionali, faide personali, clamorosi voltafaccia, tatticismi esasperati. Il tutto, lo diciamo serenamente, a cominciare dal Presidente del Consiglio in carica Mario Draghi. Che ha aperto le danze nella conferenza stampa di fine anno, autocandidandosi al Colle e minacciando nemmeno troppo velatamente che non sarebbe stato disponibile a guidare ancora il governo se non fosse stato eletto da tutta la maggioranza che sostiene il governo. Per quanto Draghi abbia più volte detto, o fatto intendere, che non fosse quello il senso delle sue parole, così è stato inteso da tutti i partiti che lo sostenevano, e il risultato lo abbiamo sotto gli occhi in questo preciso istante: nessuno di loro, forse ad eccezione del segretario del Partito Democratico Enrico Letta e di quella parte di Cinque Stelle fedele a Luigi Di Maio, vuole Draghi al Colle.
Ma siccome al peggio non c’è limite, il Presidente del Consiglio – evidentemente persuaso dall’enorme consenso popolare che i sondaggi gli attribuiscono, del favore che gode presso i nostri alleati europei e atlantici e apparentemente inconsapevole dell’irritualità di un capo del governo che diventa capo dello Stato senza passare dal via – ha rotto gli indugi e si è messo a trattare personalmente con i leader di partito, in spregio a ogni prassi istituzionale. Di fatto – proviamo a scriverla più neutra possibile – Il Presidente del consiglio Mario Draghi ha provato ad accordarsi coi partiti che lo sostengono sulla composizione del governo guidato dal successore del Presidente del Consiglio Mario Draghi che sarà nominato dal Presidente della Repubblica Mario Draghi, che sarà eletto solamente se riesce a mettere d’accordo i partiti sul suo successore e sulla divisione dei ministri del governo che gli succederà.
Di fronte a una simile forzatura, quasi quasi si capisce la ritrosia dei partiti, o quantomeno se ne comprendono gli appetiti, visto che manca un anno alle elezioni e ciascuno di loro vuole portarsi a casa qualcosa che permetta loro di guadagnare consensi. Così, non bastasse il fastidio per l’iniziativa irrituale del Presidente del Consiglio, ci si mette pure la tattica: più mi metto di traverso, più è alto il prezzo per convincermi a votare Draghi. Il fatto che Draghi, oggi come oggi, rischi davvero di non finire al Colle dipende dalla sua indisponibilità ad ascoltare le richieste dei partiti, anche perché dovesse acconsentire a ciascuna di esse di governi ce ne vorrebbero due.
Tutto questo si intreccia ai piccoli grandi regolamenti di conti interni in seno a ciascun partito. Nel Pd che apparentemente è compatto su Draghi, c’è chi spera non venga eletto per chiedere la testa del segretario Enrico Letta. Nei Cinque Stelle si registra la guerra civile tra Luigi Di Maio e Giuseppe Conte, rispettivamente pro e contro Draghi, ognuno persuaso del fatto di avere più parlamentari dell’altro, entrambi pronti a usare l’elezione del Presidente della Repubblica per decidere chi comanda. Lo stesso nella Lega, dove Salvini non vuole Draghi, e gioca di sponda con l’arcinemico Conte per portare al colle la presidente del Senato Elisabetta Casellati per sfasciare l’alleanza Pd-Cinque Stelle che Conte stesse aveva concorso a costruire, mentre Giorgetti e i governatori del Nord sperano in Supermario e fanno asse con i dem. Poi c’è Matteo Renzi, che dice di volere Draghi e che ha passato gli ultimi dodici mesi a vantarsi di essere stato il kingmaker di Draghi a Palazzo Chigi che sta tuttavia lavorando per portare al Colle Pierferidinando Casini. E Berlusconi, che non vuole né Draghi, né Casini, lasciando i suoi nell’incertezza più totale. Rimane il gruppo misto, il più ampio di sempre, che non vuole Draghi, ma che pare sia favorevole a una ricandidatura di Sergio Mattarella, che tuttavia dovrebbe essere il principale sponsor di Draghi al Colle.
Comunque vada, insomma, sarà un disastro. Se la maggioranza, alla fine, riuscirà a eleggere Draghi, lo farà con tutta la riluttanza del caso, aprendo le danze alla nascita di un governo di fine legislatura, che – semmai nascerà – si annuncia debolissimo. Se non ce la farà, e prevarranno Casini o Casellati, rischieranno di ritrovarsi sul tavolo le dimissioni di Draghi prima che riescano ad aprire il primo scatolone, con un rischio molto concreto di elezioni anticipate nel pieno dell’ondata di Omicron. Rimane l’ultima carta, il piano zeta, la rielezione a furor di camere di Sergio Mattarella, che salverebbe tutti come già salvò tutti Napolitano nel 2013, dopo la bocciatura di Franco Marini e i 101 traditori che impallinarono Prodi. E quasi quasi, viste le alternative, verrebbe da augurarsi che vada davvero a finire così.
Scusaci tanto, Sergio.