Protocollo Italia-Albania, un altro corto circuito: chi presenta domanda d’asilo torna libero

Nel novembre 2023, il governo italiano annunciava con soddisfazione l'accordo con l'Albania per la gestione dei migranti considerati "irregolari": una strategia presentata come innovativa, pensata per alleggerire la pressione sui Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) italiani. Secondo l'intesa, chi non possiede un permesso di soggiorno deve essere trasferito nei centri realizzati oltre Adriatico, Shengjin e Gjader, e attendere il rimpatrio verso il proprio Paese d'origine. Ma la realtà sta evidenziando una serie di criticità. Come mostra il recente caso del cittadino marocchino H.A., riportato da il manifesto, chi presenta domanda di asilo una volta arrivato in Albania viene riportato in Italia e, in molti casi, rilasciato. Una semplice richiesta di protezione internazionale modifica infatti lo status giuridico del migrante, bloccando il percorso che avrebbe dovuto condurre alla sua espulsione. Dietro questo apparente inceppo normativo si celano scelte politiche discutibili, applicazioni legislative non allineate con il diritto europeo e numerose incoerenze operative. Le prime pronunce dei tribunali, che annullano i trattenimenti nei centri albanesi, stanno mettendo in discussione le fondamenta del progetto sostenuto dai governi italiano e albanese.
E mentre l'esecutivo celebra il primo rimpatrio avvenuto dopo il trasferimento in Albania, crescono le perplessità tra i giudici italiani e negli organismi europei, che iniziano a sollevare dubbi formali e sostanziali sulla legittimità e sull'efficacia dell'intero impianto.
Il caso H.A.: l'asilo che smonta il sistema
H.A., cittadino marocchino arrivato in Europa nel 2021, è stato trasferito in Albania l'11 aprile 2025 scorso, nel giorno inaugurale delle deportazioni verso i centri di Gjader e Schengjin. Insieme ad altri 39 migranti, era partito dal Cpr di Palazzo San Gervasio, in Basilicata. Una settimana dopo, in Albania, ha chiesto asilo per la prima volta: un gesto che ha ribaltato completamente la sua condizione giuridica. Non era più, infatti, un "irregolare" da rimpatriare, ma un richiedente protezione internazionale, tutelato da una serie di norme europee e italiane. In base alla legge, la competenza sul suo caso è passata alla Corte d'Appello di Roma, che ha dichiarato illegittima la sua detenzione in Albania. Il motivo? Le uniche due procedure previste dal protocollo, cioè rimpatrio o esame accelerato della domanda d'asilo in frontiera, non si applicano a chi ha già fatto ingresso nel territorio italiano. H.A., quindi, è stato riportato a Bari. Eppure, le autorità locali hanno provato a trattenerlo nuovamente, emettendo un secondo provvedimento. Ma anche questo è stato bocciato, stavolta dalla stessa Corte d'Appello di Bari, che ha rilevato vizi di forma: il comma citato per giustificare il trattenimento era sbagliato, e i termini costituzionali erano stati superati. H.A. è stato quindi liberato.
Commi, giudici e trappole burocratiche
Il nodo cruciale della vicenda sarebbe giuridico, ma non per questo meno politico. La legge italiana recepisce la cosiddetta "direttiva accoglienza" dell'Unione Europea e prevede tempi e modalità precise per convalidare un trattenimento. Il trattenimento amministrativo può essere disposto solo in casi molto specifici e va convalidato entro 48 ore da un giudice. Il problema? Le autorità italiane hanno applicato il comma sbagliato della legge, riferito a persone in libertà, non a detenuti. E anche se avessero usato il comma corretto, il termine delle 48 ore era scaduto. Un errore tecnico, certo, ma che svelerebbe una gestione confusionaria, fatta di improvvisazioni e di forzature giuridiche. Non è un caso isolato: un altro migrante, un cittadino del Bangladesh, ha chiesto asilo durante un'udienza davanti a un giudice di pace, e ora il suo caso sarà riesaminato. Anche lui potrebbe rientrare a breve in Italia e ottenere la libertà.
La "vittoria" del governo e l'effetto boomerang
Nonostante tutto questo, il governo italiano ha celebrato il primo rimpatrio effettuato dal centro albanese di Schengjin: un uomo bengalese di 49 anni, fermato a Roma per precedenti penali e attività illegali. Ma la realtà racconta, anche qui, ben altro: l'uomo era già pronto al rimpatrio quando si trovava in Italia. Invece di essere espulso direttamente, però, è stato trasferito a Caltanissetta, poi a Brindisi e infine portato in Albania. Una settimana dopo, è stato riportato in Italia e rimpatriato da lì. Un giro assurdo, e per i più critici, anche un inutile spreco di risorse e tempo, dettato solo dalla necessità politica di "usare" i centri albanesi. Ma, secondo il protocollo stesso, i rimpatri devono partire dal territorio italiano. Un'operazione che insomma poteva svolgersi in pochi giorni a Roma è durata settimane, passando per tre regioni italiane e due Paesi.
Il rapporto del Consiglio d'Europa: un sistema in crisi
A rendere ancora più fragile il progetto albanese è il rapporto appena pubblicato dal Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d'Europa. Il documento denuncia gravi violazioni nei Cpr italiani, parlando apertamente di maltrattamenti, uso sproporzionato della forza da parte della polizia, somministrazione di psicofarmaci non prescritti e condizioni materiali carcerarie. Particolarmente allarmante il quadro del Cpr di Potenza, dove l'abuso di farmaci sembra sistematico. Il Cpt critica anche l'assenza di un controllo indipendente, la gestione opaca degli appalti, le carenze igieniche e sanitarie, e il sovraffollamento. Ma ciò che più colpisce è la conclusione finale: alla luce di queste condizioni, è insostenibile l'estensione di questo modello in un contesto extraterritoriale come l'Albania. Una denuncia che appare molto chiara: un sistema che già in Italia mostra gravi limiti non può essere esportato oltre i confini nazionali, tanto meno senza una riforma profonda.
Scarpa (Pd): "Anche Consiglio d'Europa condanna modello Albania"
"Il nuovo rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d'Europa è un atto d'accusa durissimo contro il sistema dei Centri di permanenza per il rimpatrio in Italia. Ha confermato ciò che già numerosi altri rapporti hanno raccontato: episodi di maltrattamento, somministrazione di psicofarmaci senza prescrizione, condizioni materiali disumane, totale assenza di trasparenza e monitoraggio indipendente. Non si può più parlare di "criticità", siamo davanti a una violazione sistemica dei diritti umani", ha dichiarato la deputata del Pd, Rachele Scarpa.
"La cosa più grave", ha aggiunto, "è che il governo Meloni ha esportato questo modello all'estero, con uno spreco spropositato di soldi pubblici. Il modello Albania, da cui continuano ad arrivarci notizie di episodi di autolesionismo, viene oggi messo esplicitamente in discussione anche dal Consiglio d'Europa. Se i Cpr in Italia sono luoghi di sospensione del diritto, figuriamoci cosa accade quando si spostano al di fuori dei confini nazionali, in un contesto dove il controllo democratico e il potere ispettivo dei parlamentari sono ancora più debole. Chi viene rinchiuso in un Cpr non ha commesso alcun reato, eppure subisce trattamenti che sarebbero inaccettabili persino in un penitenziario. Il fatto che il Cpt parli di ‘approccio sproporzionato alla sicurezza', di ‘carceri di fatto' e di ‘detenuti parcheggiati', deve farci rabbrividire. Questo non è controllo delle migrazioni: è disumanizzazione. Ed è ancora più inaccettabile se a subirla sono persone vulnerabili, senza alcuna possibilità di difendersi. Il governo deve rispondere subito, assumendosi le proprie responsabilità. È tempo di chiudere i CPR e investire su canali sicuri di immigrazione regolare, rispettosi dei diritti e della dignità umana".
Scarpa ha poi concluso: "Continuare su questa strada significa avallare un sistema che produce sofferenza, isolamento, e in troppi casi, come ci dicono anche i dati sul suicidio, morte".