La presentazione dei contrassegni per le politiche 2013, cui seguirà quella definitiva delle liste dei candidati alla Camera ed al Senato, è stata in qualche modo la manifestazione più evidente del clima che si respira in questi primi giorni di campagna elettorale. Anche a voler tacere della valanga di simboli presentati, il dato politico che emerge resta quello di una (nuova) frammentazione, cui necessariamente corrisponderà una dispersione del consenso che, complice anche una legge elettorale ai limiti dell'accettabile, metterà a serio rischio la governabilità del Paese. È la fine del bipolarismo (almeno per come abbiamo imparato a conoscerlo in questi ultimi vent'anni), accertata e sostanzialemnte condivisa, eccezion fatta per "qualcuno" che ancora trova la forza per appellarsi al voto utile.
Ma c'è un altro aspetto su cui tanto si è scritto e sul quale occorrerebbe spendere qualche parola: la personalizzazione "obliqua" dello scontro politico. Non si tratta soltanto del legame inscindibile fra leader, partito e consensi elettorali, che resta regalo (più o meno gradito) della transizione morbida dalla Prima Repubblica e feticcio della"nuova" politica. È piuttosto il legame fra elettore e candidato che, a tutti i livelli, bypassa completamente la proposta politica e finanche le formalità istituzionali. Si vota per il barone od il notabile sul territorio (ne ha scritto su fanpage Ciro Pellegrino riferendosi alla Campania "in bilico"), si vota per Grillo o Monti (che non nemmeno candidati), si vota per un Presidente che non sarà Presidente, si vota per un capo della coalizione senza ancora conoscere la coalizione. Senza alcun riferimento ai programmi, alla rappresentanza, all'idea di Paese. Insomma, si è in qualche modo già oltre il leaderismo, con tutto ciò che ne consegue.
Come se ciò non bastasse, a chiudere il cerchio vi è la fredda evidenza dei numeri e la necessità di calibrare mosse, alleanze e comunicazione in relazione ai flussi di consenso e a calcoli specifici. In poche parole, a guidare scelte ed orientamenti non sono né programmi né ideali, ma strategie e calcoli di sostanza: così si procede con il bilancino a correggere falle, a recuperare consensi, a ricalibrare aspettative. Niente di nuovo, si dirà. Da sempre la strategia comunicativa prescinde (in parte o del tutto) dai programmi, dalle idee e si concentra sui nomi e sugli slogan. In teoria però il Paese è ad un bivio, scosso da una crisi economica senza precedenti e con un disperato bisogno di certezze. E non siamo noi a dirlo, ma sono "loro" a ripetercelo da mesi, settimane. E, almeno teoricamente, dovrebbe essere sui contenuti e sulle risposte diverse da dare alla crisi che dovrebbe giocarsi la partita. Teoricamente ognuno di noi dovrebbe essere in grado di elaborare un giudizio, dopo aver valutato nomi e programmi, idee, proposte e visioni del mondo, si spera, diverse, contrastanti, antitetiche.
Quanto questo combaci con la realtà di una campagna elettorale fatta di presenzialismo televisivo e slogan urlati è sotto gli occhi di tutti. Così come è evidente l'incapacità di andare oltre un modello che si è radicato negli anni e che si basa sostanzialmente sull'unidirezionalità del confronto (basti pensare ai nove milioni davanti alla tv durante la sfida Santoro – Berlusconi) e sulla chiusura a quella stessa "partecipazione diretta" che per altre vie si invoca. Con una differenza (che peggiora le cose) rispetto al passato, insita nella pervasività della retorica populista e qualunquista a tutti i livelli, che rende sostanzialmente omogenee le proposte su temi specifici dei differenti schieramenti e abbassa ancora il livello del confronto.