“Non è più tempo di Iri, però dobbiamo avere uno Stato che agisca di più”. Romano Prodi guarda questa crisi da molteplici angolazioni: quella dell’ ex presidente dell’Iri, la grande cassaforte delle partecipazioni statali in economia, di fronte a quella che si prospetta come la più grande crisi economia dell’era moderna. Quella del Presidente del Consiglio, per due volte, ora che il suo successore Giuseppe Conte si ritrova a governare a colpi di Dpcm e messaggi alla nazione. E quella del presidente della Commissione Europea, ora che l’Unione Europea è chiamata a uno sforzo di coesione e fiducia reciproca tanto indispensabile quanto complesso.
Professor Prodi, siamo alla vigilia della cosiddetta Fase 2, e l’Ufficio Parlamentare di Bilancio ha previsto un crollo del Pil di 15 punti percentuali nel primo trimestre dell’anno, mentre tutte le previsioni parlano di un crollo del Pil sul 2020 attorno al 10%. Sono dati impressionanti…
Non ci voleva un genio per prevedere tutto questo. Quando per legge si bloccano tutte le attività produttive e quelle che alimentano i consumi, i dati non possono che essere questi che si leggono adesso. Il problema è come, quando e in che modo possiamo ritornare alla normalità. Questo è il primo problema, ma non è un problema da economista. Dipendiamo dalle decisione della sanità e dalla politica.
In che senso dipendiamo dalla politica?
Nel senso che è la politica che deve decidere quando far ripartire l’economia. Ma anche nel senso che l’ingranaggio non può mettersi in moto da solo e in fretta. C’è bisogno di un aiuto. E guarda un po’ torna centrale il ruolo del pubblico, così come dopo la grande crisi del 2008, o dopo la seconda guerra mondiale. Torna Keynes, verrebbe da dire. Persino Trump ha appena messo 2200 miliardi per risollevare l’economia americana: anche il più anti-keynesiano del mondo ricorre a Keynes per uscire dalla crisi.
C’è chi dice che l’Italia uscirà spiazzata due volte da questa crisi: vittima del crollo della domanda globale, ma anche leader di mercato in settori che si dice andranno in crisi nei prossimi anni, dal lusso all’automotive, sino al turismo. Lei crede che l’Italia debba ripensare se stessa?
L’Italia non deve ripensare se stessa. Non è questo il punto principale. L’Italia deve produrre le cose che sa produrre bene, e produrle in modo concorrenziale. Dovrà produrre meglio, questo sì. Dovrà inserire più tecnologia e più automazione. Non è che potremmo metterci a fare televisioni e smartphone. Noi abbiamo la meccanica, abbiamo il lusso, abbiamo il cibo, abbiamo tutte produzioni ad alta qualità e alto prezzo. Dobbiamo difendere e affinare tutto questo. E poi dobbiamo cambiare il modo con cui ci relazioniamo con il mondo.
In che senso?
Prendiamo il lusso. Buona parte dei compratori del lusso italiano sono cinesi. E venivano a comprarlo nei negozi delle nostre città, o in quelli di Parigi. Ora i cinesi non vengono più. E allora bisogna riorganizzare le nostre catene distributive in Cina dove è già ripresa da qualche settimana la domanda di lusso. Il mondo si muove a una velocità estrema: noi, almeno nel breve periodo, non possiamo pensare di entrare in nuovi settori e in mondi da cui siamo alieni quando abbiamo tanto da lavorare sui nostri. Certo tra non molto tempo dovremo riorganizzare il nostro futuro. Però…
Però?
Però è una pandemia che colpisce tutto il mondo. E quindi, la nostra ripartenza non dipende solo da noi, ma anche da quanto e da come si muoverà tutto il resto.
Cito il titolo dell’intervista che l’economista Mariana Mazzucato, consulente del governo nella task force per la ripartenza economica guidata da Vittorio Colao, ha concesso a Repubblica: “Ora uno Stato imprenditore che decida dove investire”. Lei che ne pensa?
Sono stato presidente dell’Iri: l’ho risanata, l’ho rilanciata e, obbedendo agli ordini del governo, ne ho anche avviato il processo di privatizzazione. E anche negli anni passati, contro tutto il mainstream economico, ho sempre sostenuto l’importanza del ruolo dello Stato in economia.
Rifacciamo l’Iri, quindi?
No, ora non è più tempo di Iri. Oggi sarebbe impossibile. Però dobbiamo avere uno Stato che agisca di più. E non ci vuole molto: pensiamo a tutte le grandi e piccole opere pubbliche. Abbiamo progetti definiti e approvati con finanziamenti già stanziati, però non si va avanti. Questa è una cosa che si può fare oggi ed è questo che oggi servirebbe per far ripartire l’economia, e per organizzare il futuro.
Ha qualche modello in mente?
Ogni Paese ha un suo modello di intervento pubblico. Ma a noi basta pensare alla Francia che non concepisce l’Iri, ma settore per settore ha una presenza di quote dello Stato in modo specializzato, in modo strategicamente raffinato. Che non si comporta in modo standardizzato, ma può contare su funzionari attenti ai problemi dei diversi settori e delle singole grandi imprese. Noi invece abbiamo dissipato tutto, compreso il capitale umano di alto livello che avevamo a disposizione. Ci vogliono anche le risorse intellettuali, per fare queste cose…
Risorse intellettuali formate dalla scuola, che rimarrà chiusa fino a settembre, e non è nemmeno stata citata dal presidente del Consiglio nel suo ultimo discorso alla nazione…
Su questo ho molto riflettuto, perché la scuola è la mia mania. I medici dicono, giustamente, che la scuola muove milioni di persone e che sarebbe troppo rischioso aprirla. Detto questo, perché non si è provata nemmeno qualche piccola sperimentazione? La scuola dell’obbligo è l’unico ascensore sociale che abbiamo per il nostro futuro. Soprattutto al Sud e nelle zone dove non ci sono contagi e dove non solo gli studenti, ma anche maestri e professori sono radicati nel territorio, è proprio così necessario tenerle chiuse? Ripeto, però: sono più sensazioni che convinzioni. E c’è più sentimento che ragione, in quel che dico.
Investire nell’economia, non tagliare nulla e non alzare le tasse: ce la faremo con un debito che già oggi è al 130% e rotti del prodotto interno lordo?
Col mio secondo governo eravamo al 102% del Pil. Se avessimo continuato altri due anni, oggi saremmo uno dei Paesi più virtuosi d’Europa. Io di mestiere facevo l’economista, e sapevo bene che quel debito pubblico è un enorme problema.
Rifaccio la domanda: il nostro debito pubblico sarà sostenibile, di fronte alla crisi che ci aspetta, o rischiamo il default?
Scusi, ma secondo lei perché insisto tanto con la solidarietà europea?
Perché?
Perché è ovvio che da soli il nostro debito non è sostenibile: qualsiasi previsione che leggo va oltre il 150%, e arriva anche al 160% nel rapporto debito Pil. A quei livelli, da soli, è molto difficile. Invece in un gioco più ampio, coi tassi d’interesse bassi, lo sarebbe eccome.
Quel che ci guadagniamo noi è chiaro. Quel che ci guadagnano gli altri, in primis la Germania, molto meno…
Io non pretendo che altri paghino per noi. La solidarietà europea non è solo ricevere qualche soldo, ma creare un ambiente in cui sei insieme agli altri nel competere con Usa, Cina, Giappone. Noi dobbiamo competere alla pari con loro, e nessun paese europeo da solo ce la può fare.
In questo senso come giudica le misure che l’Unione Europea sta negoziando per rispondere alla crisi, a partire da quel Recovery Fund, che in molti vedono come un“embrione degli Eurobond?
L’Europa ha fatto passi nella direzione giusta, ma non sono ancora sufficienti.
Come mai?
Ci danno risorse di lungo periodo e a bassi tassi d’interesse, e questa è la direzione giusta. Non sono ancora sufficienti perché servirebbero più risorse e una parte di esse dovrebbe essere a fondo perduto, abbastanza per farci superare la botta. Ed è una botta che non riguarda solo noi! Sono ottimista però: nella scorsa settimana un po’ di politica europea sembra essere rinata.
Secondo lei, è un passo in avanti verso gli Stati Uniti d’Europa?
Non mi aspetto più di tanto, conoscendo l’ancora persistente divergenza di interessi e di valori. Però mi aspetto che in tempi straordinari come questi vi sia meno egoismo. Proposi invano il ministro del tesoro europeo quando il processo di unificazione faceva progressi, e non passò. La vedo dura possa passare oggi, con Paesi come Olanda, Finlandia, Lussemburgo del tutto contrari a politiche fiscali comuni europee. Però attenzione: questa crisi è un lezione per chi pensa che si possa andare avanti da soli. Chissà che non serva.
Un’ultima domanda, professore: lei è stato Presidente del Consiglio. Che effetto le fa vedere il Paese governato a colpi di Dpcm?
Non sono un giurista. Però io al governo ho tenuto un comportamento sempre molto collegiale. Per me è importante il gioco di squadra, con i colleghi di governo e con il Parlamento. E, in un’epoca di prime donne, questa è stata considerata una mia debolezza. Lo dico con un esempio : la mia Commissione Europea viene da molti considerata la migliore della Storia, ma la mia Presidenza non gode dello stesso rating. Ma io rifarei le cose allo stesso modo perché credo nel ruolo collegiale del governo e nel potere del Parlamento che, a Roma e a Bruxelles, ho sempre coinvolto il più possibile. Detto questo, non esiste una regola generale. Ognuno governa con le priorità e con i valori con i quali è nato. Vale per me come per Giuseppe Conte.