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Opinioni

Più poveri, sfiduciati e abbandonati: che fine hanno fatto gli operai in Italia

Le cronache dalle fabbriche parlano di una situazione insostenibile. Due operai su tre si ritengono poveri. E anche i rinnovi contrattuali importanti non bastano più. Quella degli operai in Italia ormai è una vera e propria emergenza.
A cura di Michele Azzu
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Che fine hanno fatto gli operai in Italia? Fino a pochi anni fa alla ribalta delle cronache, durante la stagione della grandi proteste nelle fabbriche – dalla Fiat alla Vinyls, passando per Fincantieri e l’Omsa di Faenza – sembra che ora si parli sempre meno di operai. Eppure la categoria è tutt’altro che scomparsa: si tratta di circa otto milioni di italiani che fra catene di montaggio, manifatture e settore agricolo costituiscono una grandissima fetta del lavoro in Italia.

Proprio in questi giorni sette anni fa, il 24 febbraio del 2010, gli operai sardi della Vinyls occupavano il carcere abbandonato dell’Asinara per protestare contro la chiusura della fabbrica. Quella protesta sarebbe poi durata oltre 500 giorni, diventando un simbolo delle rivendicazioni operaie del paese. Un punto di riferimento per chi non voleva che le fabbriche chiudessero nell’indifferenza dei politici che nel 2010 ancora negavano gli effetti della crisi in Italia.

Sette anni dopo c’è il silenzio. Ma i recenti fatti di cronaca suggeriscono una situazione della categoria sempre più difficile, fra vertenze ormai dimenticate, lavoratori che hanno finito gli ammortizzatori sociali, imprenditori che per aumentare la produzione ormai impediscono agli operai perfino di poter andare al bagno. È avvenuto alla Seves di Atessa (Chieti) dove un operaio si è urinato addosso, come ha denunciato il sindacato di base Usb, e sono tante le aziende che stanno introducendo parametri più restrittivi sulle pause per aumentare la produzione.

Perfino i rinnovi contrattuali importanti, come quello avvenuto poche settimane fa per i metalmeccanici – che hanno ottenuto 92 euro in più in busta paga – non sembrano abbastanza per risollevare le sorti di un lavoro che, a differenza di pochi anni fa, non riesce più a portare il nucleo familiare fuori dalla povertà. E così mentre chi non ha lavoro – in particolare i giovani di questo paese – si dispera e fugge all’estero, chi è assunto come operaio pur lavorando rimane povero.

Vive nella sfiducia del futuro e nella consapevolezza di essere oggi più povero, fuori dal ceto medio che una volta conteneva la maggior parte dei lavoratori della categoria: è quanto ha riportato il recente sondaggio Demos-Coop, secondo cui il 65% degli operai ritiene oggi di vivere in una classe sociale bassa, assieme al 66% delle casalinghe e al 55% dei pensionati. Per fare un confronto, la percentuale di chi al pensa allo stesso modo fra i disoccupati è del 72%, a soli 7 punti percentuali di differenza.

Insomma, nonostante i rinnovi contrattuali, nonostante non si parli più di grandi proteste operaie come avveniva pochi anni fa, gli operai sembrano vivere un momento difficilissimo. La percezione di vivere male è appena sopra quella di chi è disoccupato. Ed è definitivamente tramontata la speranza di poter accedere a un futuro migliore. Come siamo potuti arrivare a questo risultato?

I SINDACATI, I CONTRATTI E GLI APPALTI. Lo scorso novembre è arrivato il tanto atteso rinnovo per il contratto nazionale dei metalmeccanici, che porta un aumento di 92 euro in busta paga per il periodo 2016-2019 e che è stato firmato da tutte le sigle sindacali. Un accordo, insomma, che ha soddisfatto un po’ tutti, e che dimostra che i miglioramenti in busta paga e nelle condizioni di lavoro arrivano quando esiste un sindacato forte. Anche oggi, nell’epoca del lavoro individualizzato e del precariato generalista, che coinvolge tanto l’architetto e l’avvocato quanto il fattorino.

C’è un problema, però, i metalmeccanici sono solo una porzione degli operai in Italia (circa 1 milione e 700mila), forse fra le ultime ad essere ancora ben sindacalizzate. Lo stesso Maurizio Landini, leader della Fiom, ha commentato sul Corriere: “Dobbiamo rilanciare la contrattazione collettiva. Perché una cosa sono le imprese strutturate che applicano i contratti nazionali, e altro è la giungla di appalti e sub-appalti”. E proprio ad appalti e sub-appalti sono ricorse troppe aziende italiane negli ultimi anni: è successo alla Fiat, dove sono stati ceduti rami d’azienda e lavoratori, o all’Ilva di Taranto, dove spesso gli incidenti sul lavoro (anche mortali) coinvolgono gli operai degli appalti.

Quello che sembra voler dire Landini, è che oggi i contratti nazionali coinvolgono meno lavoratori di una volta, e sono dunque meno rilevanti e impattanti sulle condizioni di lavoro del paese. Perché anche a condizioni di lavoro identiche, ci sono lavoratori di serie A che hanno la fortuna di lavorare ancora nelle aziende grandi e strutturate del paese, e quelli di serie B che sono stati ceduti o si sono trovati in indotti e appalti. Dove magari il contratto con cui si è stati assunti è diverso, c’è la solidarietà, si passa per agenzie interinali o si finisce a essere pagati con i voucher.

E con pochi controlli, tutele e sindacati. In questo senso, il futuro referendum sugli appalti proposto dalla Cgil diventa fondamentale per le tutele di una realtà del lavoro italiano estremamente diffusa. “Portare la contrattazione nazionale ovunque”, è questo il messaggio che la Cgil ha voluto lanciare di recente con la sua “Carta dei diritti”. Una proposta che può sembrare fuori tempo massimo nell’epoca del precariato selvaggio, ma che, come potrà avvenire con il referendum su voucher ed appalti, ha il potenziale per diventare la battaglia politica e sindacale più importante dell’ultimo decennio.

POVERTÀ E PERCEZIONE DI CLASSE. E veniamo proprio alla reale portata ed impatto, dunque, della contrattazione sulla categoria. Come si diceva, il sondaggio Demos-Coop ha messo in evidenza il fenomeno della “discesa sociale” della classe operaia, ovvero lo scivolamento in basso nella scala sociale dei lavoratori di questa categoria. Si tratta di uno spostamento che ha coinvolto, in realtà, il 54% della popolazione italiana, con la riduzione del ceto medio seguita agli anni della crisi (nel 2011 era il 50% della popolazione, ora è il 39%). Il fattore evidenziato dal sondaggio Demos, tuttavia, riguarda proprio la professione come elemento decisivo della discesa sociale, e indica la professione operaia come la più colpita.

La quota di operai che si colloca nei settori più bassi della struttura sociale è il 65%, praticamente due su tre, e dieci punti percentuali sopra la media della popolazione. Nel 2006 invece, dieci anni fa, erano proprio due operai su tre quelli che si definivano ceto medio. Nell’analisi di Ilvo Diamanti su Repubblica, inoltre, si nota come la dimensione del fenomeno che coinvolge gli operai sia anche più ampia se si considera che le altre categorie coinvolte da alte percentuali di “discesa sociale” sono casalinghe, con ogni probabilità parte di nuclei familiari in cui il marito è operaio, e pensionati a loro volta ex operai. Secondo la Banca d’Italia, infatti, nel 45.9% dei casi le famiglie operaie hanno un solo reddito in famiglia. È sempre l’istituto bancario ad evidenziare come nei dieci anni dal 2005 al 2015 l’incidenza della povertà assoluta fra le famiglie operaie sia triplicata.

LA SITUAZIONE NELLE FABBRICHE È PEGGIORATA. Ci sono anche i casi di cronaca a fotografare una situazione difficile nelle fabbriche. Come il caso dell’operaio della Sevel di Atessa (Chieti), parte dello stabilimento FCA della Fiat, a cui è stato impedito di andare in bagno e si è urinato addosso, come denuncia il sindacato di base Usb. “Si tratta di un fatto gravissimo”, ha detto l’Usb in una nota, “Episodi simili si ripetono ormai sempre più spesso”. Nell’azienda meccanica Oerlikon di Bari, ad esempio, si era deciso di fare andare al bagno gli operai tutti assieme, decisione poi ritirata in seguito alle proteste della Fiom.

Ma ci sono tanti operai che ormai dalle fabbriche sono fuori e ora stanno finendo o hanno finito gli ammortizzatori sociali. Sono quelli, ad esempio, della Vinyls abbandonati dalla politica e dall’ENI che poi ha cancellato la prospettiva della chimica verde che doveva in teoria reimpiegare quegli operai. È successo agli operai Alcoa, che dopo otto anni di proteste e trattative proprio in questi giorni attendono le conferme sulla più recente ipotesi di salvataggio. Sono quelli della ex Eaton di Massa Carrara, che ha chiuso nel 2008 e che hanno finito ora gli ammortizzatori.

E ancora continuano le lunghe proteste di fabbrica, anche se raramente i media se ne occupano. Come alla ex Alstom di Sesto San Giovanni a Milano, occupata da 50 operai ormai da oltre quattro mesi, e in cui di recente ha fatto visita Maurizio Landini. O come la lunga protesta degli operai della fabbrica di vetro Sangalli a Manfredonia, che in questi giorni hanno lanciato la campagna per invitare eventuali acquirenti a rilevare lo stabilimento: “Un vero affare per 14 milioni di euro”, riporta il gruppo Facebook degli operai, che spiega come l’azienda possa produrre circa 600 tonnellate al giorno di prodotto.

L’appello degli operai della Sangalli Vetro, in fondo, è la fotografia della classe operaia oggi: più povera, sfiduciata, in crisi e abbandonata a sé stessa. Per salvarla servirebbe una grande stagione di lotte sindacali, capaci di riportare la contrattazione nazionale a cambiare le condizioni di lavoro del paese. Coinvolgendo anche i precari, e gli schiavi del caporalato digitale, che stanno perfino peggio degli operai. Tutto questo sarebbe possibile se i sindacati e la politica riuscissero a dare vita a una nuova fase.

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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