Il Consiglio Europeo ha affrontato il tema delle migrazioni “in tutti i suoi aspetti” e per tale motivo si configurava come appuntamento cruciale nell’agenda politica continentale. Sul tavolo c’era il progetto di conclusioni redatto dal Presidente del Consiglio Donald Tusk e dalla Presidenza lussemburghese della Ue, che tiene conto del lavoro della Commissione Europea e del Consiglio Giustizia e Affari Interni, oltre che delle deliberazioni della Conferenza ad alto livello sulla rotta Mediterraneo orientale – Balcani occidentali dello scorso 8 ottobre.
Va ricordato che nella conferenza che si è tenuta nel Lussemburgo si è stabilito di sostenere il lavoro di Giordania, Libano e Turchia, ossia i Paesi di prima accoglienza che ospitano la maggior parte dei rifugiati siriani; di mettere in campo misure specifiche per il sostegno a tutti i Paesi di transito coinvolti per migliorare le capacità di accoglienza, registrazione e trattamento delle domande di asilo; di impostare un’azione di lotta al traffico di uomini, preparando il terreno per il vertice specifico che si terrà a Malta l’11 e il 12 novembre.
Cosa chiedeva l'Italia
Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi aveva relazionato in Parlamento sullo stato dell'arte alla vigilia del vertice. Il suo intervento aveva un incipit chiarissimo: “L’Italia aveva ragione, l’Europa e il resto d’Europa no”. E Renzi si era detto sicuro: “Oggi assistiamo, dopo sei mesi in cui era sempre stato negato, all'assunzione di un principio – autorevolmente riportato dai Paesi di Germania e Francia, da François Hollande e da Angela Merkel, al Parlamento europeo – molto semplice: l'Accordo di Dublino è finito. Non lo è formalmente, non lo è tecnicamente, dovrà essere modificato”. Nel resto dell’intervento, per la verità, Renzi si era tenuto assai lontano dal merito delle questioni, lasciando però trasparire una buona dose di fiducia (per usare un eufemismo) e tanto orgoglio per i risultati raggiunti dal nostro Paese in sede europea. E spiegando di voler tenere il punto a Bruxelles. Anche considerando che l'Italia ha fatto più e meglio degli altri sulla questione. E siamo d'accordo con lui.
Qual è la situazione, quindi?
Il Consiglio Europeo avrebbe sostanzialmente dovuto affrontare una serie di punti chiave, sui quali da tempo si concentra il pressing italiano (e non solo). A partire dalla questione del sistema di gestione integrata delle frontiere, che prevede anche il potenziamento ulteriore di Frontex, che potrebbe avere a disposizione “una guardia di frontiera e una guardia costiera europee, compresa la possibilità di schierare squadre di intervento rapido, in cooperazione con gli Stati membri interessati”. Sul punto, non si è giunti a un accordo e lo stesso Hollande ha ammesso che sono stati fatti solo "piccoli passi": del resto, avere una guardia di frontiere sovranazionale significherebbe affrontare il tema della sovranità (diciamo che non è proprio il terreno più semplice sul quale muoversi, considerando il colore di alcuni Governi Ue).
Poi, ovviamente, bisognava sciogliere il nodo degli hotspot, dei piani di ricollocamento e della questione dei rimpatri.
La linea italiana è chiara: gli hotspot hanno senso solo se parallelamente entra a regime il sistema del ricollocamento. “Simul stabunt, simul cadent”, ha più volte detto Renzi. Allo stesso tempo, però, il Governo non ha ancora fatto un solo passo concreto per mettere in piedi gli hotspot, ovvero le strutture nelle quali i migranti dovranno essere identificati, registrati e “smistati” a seconda del percorso assegnato (richiesta di protezione, rimpatrio, ricollocamento): l’impegno resta quello di aprirli a novembre, ma la Ue sa bene che è poco più di una vaga promessa. E, come notava Zatterin, se è pur vero che siamo agli inizi, allo stesso tempo tra domanda e offerta c'è grande distanza (l'Italia parla di 2500 posti entro fine anno…)
Il problema è che, al momento, sulla ricollocazione non c’è da essere così entusiasti, mentre sui rimpatri c’è da sbatterci la testa. Tralasciando lo spottone con i 19 migranti che hanno lasciato il nostro Paese, il Consiglio Europeo continua a “sollecitare” gli Stati membri a procedere alla piena attuazione delle misure di ricollocazione (la decisione 1523 che istituisce un meccanismo di ricollocazione temporanea ed eccezionale, su un periodo di due anni, di 40.000 richiedenti con evidente bisogno di protezione internazionale, di cui 24.000 dall'Italia e 16.000 dalla Grecia, e la decisione 1601 che prevede la ricollocazione di 120mila persone, di cui: 15.600 richiedenti dall'Italia; 50.400 richiedenti dalla Grecia; e, a decorrere dal 26 settembre 2016, 54.000 richiedenti proporzionalmente dall'Italia e dalla Grecia). Ma le resistenze restano e le sanzioni non hanno praticamente alcun effetto. Insomma, che il piano si inceppi, al momento, è possibilità tutt’altro che remota.
In pratica, come certifica una nota del Centro Studi del Senato: "Le conclusioni non includono nessun accenno alla proposta della Commissione europea relativa a un meccanismo permanente di ricollocazione, e si limitano a constatare la necessità di portare avanti le riflessioni sulla politica complessiva dell'UE in materia di asilo e migrazione".
Sui rimpatri, e non si tratta di fare i gufi, la situazione è ancora peggiore. Il 9 settembre la Commissione Europea, nel sollecitare ancora una volta la “piena attuazione della direttiva comunitaria sui rimpatri”, aveva addirittura adottato “un manuale sul rimpatrio, al fine di assistere gli Stati membri con orientamenti comuni, buone pratiche e raccomandazioni”. Ma restano ancora enormi le difficoltà oggettive, oltre che le singole valutazioni sull’opportunità dei rimpatri (e le pressioni dell’opinione pubblica, in un senso o nell’altro). Per questo l’orientamento del Consiglio era quello di ampliare il mandato di Frontex in materia di rimpatri, con la possibilità che l’agenzia organizzi “operazioni di rimpatrio congiunte di propria iniziativa” e abbia la possibilità “di acquisire i documenti dei migranti da rimpatriare”. Parallelamente i “paesi terzi” potrebbero adottare un “laissez-passer come documento di riferimento ai fini del rimpatrio”. Anche su questa cosa, il massimo che si è ottenuto è stato di spostare la discussione all'incontro dell'11 novembre.
Peraltro, dare anche questo potere alla già ipertrofica Frontex potrebbe non essere una buona idea…
Infine, non certo ultima per importanza, c’è la questione della Turchia. Come noto, c’è un gruppo di Paesi membri che ritiene essenziale che si arrivi a un accordo con la Turchia, che al momento ospita oltre un milione di profughi. Come spiega Repubblica, “la Ue ha offerto ad Ankara un'accelerazione sulla liberalizzazione dei visti, un finanziamento "da decidere nei prossimi giorni" a fronte di una richiesta di 3 miliardi di euro per la gestione dei campi, l'inserimento nella lista dei ‘paesi sicuri' e l'apertura di 6 capitoli nel pluridecennale negoziato per l'adesione alle Ue”. In cambio, il Governo turco si dovrebbe impegnare a controllare le frontiere, ad accettare le riammissioni e a mettere in campo misure contro il traffico di uomini.
Una intesa che esiste solo sulla carta, perché sono in molti a non fidarsi di Ankara. La Germania, in primo luogo, non ha alcuna intenzione di inserire la Turchia nella lista dei Paesi sicuri, anche in considerazione dei recenti episodi. Di soldi, manco a parlarne.
Ah, poi per capire se davvero il Regolamento di Dublino è morto, bisognerà attendere fino a marzo.