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Perché vietare il velo è un atto razzista e patriarcale della destra che vuole criminalizzare l’Islam

La Lega vuole vietare il velo nei luoghi pubblici: un atto che il partito del Carroccio definisce “a difesa delle donne”, ma che in realtà strumentalizza i loro corpi per criminalizzare un’intera comunità.
A cura di Natascia Grbic
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Manifestazione di donne a Kabul contro il regime dei Talebani
Manifestazione di donne a Kabul contro il regime dei Talebani

Sgomberiamo il campo da ogni equivoco: la proposta di legge presentata dalla Lega alla Camera per vietare ‘il velo' nei luoghi pubblici non è amica delle donne. È nient'altro che un provvedimento inutile (quante donne vedete ogni giorno passeggiare col burqa in Italia?), il cui unico scopo è strumentalizzare la condizione femminile per criminalizzare un'intera comunità. Perché diciamocelo chiaramente: un progetto di legge di questo tipo non otterrà nessun effetto, se non quello di alimentare gli stereotipi sulle persone musulmane, come quello che vuole la donna sottomessa al volere dei membri maschili della propria famiglia.

Non è la prima volta che il corpo delle donne viene usato come terreno di scontro per condurre un attacco su più larga scala: pensiamo a quando, nel 2016, alcuni sindaci di località balneari francesi sul Mediterraneo vietarono il burkini. Quest'ultimo è un indumento da spiaggia usato soprattutto dalle donne musulmane (ma non solo) che copre tutto il corpo, come fosse una muta da sub: il surreale dibattito su questo tipo di costume arrivò dopo gli attentati di Parigi del 2015, in un periodo in cui la comunità araba e islamica era fortemente sotto attacco in Francia. In questo caso si usò strumentalmente il discorso sull'emancipazione femminile per colpire un'intera fetta di popolazione, facendola apparire come ‘retrograda' e ‘incapace di integrarsi'. Inutile dire che l'effetto di questi divieti non fu che le donne musulmane iniziarono a comprare costumi graditi a Manuel Valls, ma che semplicemente non misero più piede in spiaggia. Bella mossa, non c'è che dire.

La comunità musulmana è sempre stata il capro espiatorio per eccellenza. Per questo iniziative come quella della Lega suscitano reazioni avverse molto timide, anche da parte dei partiti della sinistra. Eppure dovrebbe essere ormai chiaro che la campagna di forzatura laica serve solo strumentalmente alle destre sovraniste per compattare il proprio elettorato contro l'Islam e recuperare il voto femminile bianco in termini reazionari. Le donne musulmane non sono soggetti passivi da salvare, e anche volessero la nostra solidarietà non sarebbe certo attraverso norme che le inferiorizzano su un piano culturale. Pensare che non siano in grado di autodeterminarsi è un retaggio nemmeno velatamente razzista e colonialista, oltre che paternalista e patriarcale. Imporre, soprattutto da parte di un'autorità statale, un determinato codice di abbigliamento, è un atto violento che nulla ha a che vedere con la liberazione e la dignità delle donne. Che devono essere libere di scegliere se coprirsi o scoprirsi. Senza contare che, nei casi in cui un certo tipo di indumento sia effettivamente imposto, queste donne non è che smetteranno di indossarlo ‘grazie' alla legge della Lega. Semplicemente smetteranno di uscire.

Ma poi, guardiamoci in faccia: viviamo in un Paese che su questo argomento può davvero mettersi in cattedra e dare lezioni agli altri?

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Giornalista dal 2013, redattrice alla cronaca di Roma di Fanpage dal 2019. Ho lavorato come freelance e copywriter per diversi anni, collaborando con vari siti, agenzie di comunicazione e riviste. Laureata in Scienze politiche all'Università la Sapienza, ho frequentato nel 2014 la Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso.
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