In questi giorni si discute molto del ruolo delle donne al potere. Tra l’incapacità della politica italiana di produrre il nome di una candidata per il Quirinale e l’elezione alla presidenza del Parlamento europeo di Roberta Metsola, grazie alla quale tutti i vertici europei sono ora ricoperti da donne, sembra ci sia accorti solo adesso della secolare assenza delle donne dai luoghi decisionali. Ma c’è un dettaglio in più che non può più passare inosservato: con poche eccezioni, tutte le figure politiche femminili più rilevanti degli ultimi anni sono espressione di tendenze conservatrici, quando non proprio di destra.
A partire dall’ultima arrivata, Roberta Metsola, che a Malta fa parte del Partito nazionalista ed è nota per le sue posizioni antiabortiste, che le sono quasi costate l’elezione. Sempre in ambito Europeo, sia Christine Lagarde che Ursula Von Der Leyen non sono certamente figure progressiste, così come una delle donne più importanti che abbiano calcato la scena politica degli ultimi anni, Angela Merkel. Anche in Italia non va meglio: a ricoprire la seconda carica dello stato, la presidenza del Senato, c’è la forzista Maria Elisabetta Alberti Casellati e una delle leader di partito più rilevanti degli ultimi anni è Giorgia Meloni. Le donne di sinistra sono praticamente assenti, sia nelle cariche istituzionali che nei vertici di partito. In effetti sembra strano: da un punto di vista ideologico, la destra affida alla donna un ruolo più tradizionale, quindi lontano dalla vita pubblica. L’emancipazione femminile è vista come un tema “di sinistra” e i movimenti femministi si sono sempre mossi più o meno in quell’ambito. Ciò non toglie che anche una donna di destra possa battersi per i diritti delle donne, ma quando guardiamo le leader conservatrici ora al potere, quasi nessuna fa una politica di genere, modellata sulle esigenze e le istanze femminili.
Questa è una prima spiegazione possibile: molte politiche conservatrici adottano in tutto e per tutto l’unico modello di potere disponibile: quello maschile. Per farsi spazio in un’arena politica in mano agli uomini, la strategia è quella di confondersi con loro, come ha insegnato l’antesignana di questa strategia, Margaret Thatcher. Tutto può piegarsi a questa esigenza: dalla scelta dell’abbigliamento all’insistenza nel non utilizzare le cariche al femminile e farsi chiamare al maschile. Si tratta di un’adozione che non è mai esplicita, perché non si pensa al modello maschile come qualcosa di caratterizzato dal genere, ma come espressione di neutralità. Non a caso nelle interviste queste figure prendono le distanze dal loro essere donne e chiedono di essere valutate per le loro politiche. Una richiesta comprensibile, ma che tradisce anche una specie di mascherata. L’apparente neutralità delle politiche conservatrici, capaci di “annullare” il loro genere nella sfera pubblica, non può che piacere a un elettorato che percepisce con fastidio le questioni femminili e femministe.
Ma al di là delle scelte di ciascuna, il successo delle leader di destra si spiega anche con il cambiamento del panorama politico degli ultimi anni. Come ha illustrato la sociologa Sara R. Farris, le intense migrazioni che hanno riguardato l’Europa negli ultimi anni hanno portato con sé anche l’emersione di una politica che mescola nazionalismo e pseudo-femminismo, il femonazionalismo. I diritti che le donne hanno conquistato negli ultimi cinquant’anni in Europa vengono usati strumentalmente per dimostrare la superiorità occidentale e per promuovere politiche razziste e discriminatorie. Così molti politici di destra si rivendono occasionalmente come difensori delle donne, sia per proteggere le loro connazionali dalla minaccia straniera, sia per condannare genericamente la condizione femminile in Medioriente. Nulla vieta che a farsi portavoce di queste politiche siano donne, che anzi proprio in forza del loro genere risultano ancora più efficaci nel propagandare questo messaggio. La leader di Rassemblement National Marine Le Pen ha costruito la sua immagine politica sul femonazionalismo: ha epurato il partito fondato dal padre dalle posizioni più estremiste e si è posta come baluardo della laicità francese e dei “valori occidentali”. Si è spesa più volte in nome dei diritti delle donne e ha condannato il sessismo delle comunità di migranti nelle banlieue, pur portando avanti posizioni nazionaliste e conservatrici e sostenendo opinioni contraddittorie sull’aborto.
Se la destra è riuscita a produrre delle leader che hanno giocato le carte del genere a loro favore, nulla di tutto questo è accaduto con la sinistra. La spiegazione più semplice di questo fatto è che a essere sessista non è solo il gretto maschilista tradizionalista che pensa che le donne debbano stare in cucina. Esistono molti modi di essere sessisti, anche se si è di sinistra e anche se a parole ci si spende per i diritti delle donne. Tutti siamo immersi in una cultura patriarcale che ci condiziona e abbracciare un’ideologia progressista non ci rende immuni dal mettere in atto comportamenti discriminatori o paternalistici. Quindi, di uomini sessisti, che non credono che le donne non siano capaci di fare politica, che le trattano come creature da proteggere e non come loro pari è pieno anche a sinistra.
Ma, anche in questo caso, ci sono altri motivi più complessi, che hanno anche a che fare con la storia del Pd degli ultimi anni e delle sue mille correnti. Un concentrato di autoreferenzialità che ha impedito l’emergere di voci fuori dal coro, fosse anche solo perché femminili. Le donne esplicitamente femministe, poi, sono ancora viste come una minaccia: se fai politica di genere, fai politica di parte e ci sono sempre altre priorità nel Paese del benaltrismo. E spesso è proprio questo determinare a priori come una donna dovrebbe far politica che porta molte a rinunciare in toto a quella che sembra essere un’impresa impossibile. Ma senza donne leader di sinistra, non c’è nessuno in grado di controbilanciare lo strapotere del potere maschile, anche quando incarnato da una donna.