Non è mai stato semplice parlare serenamente e lucidamente di giustizia e diritti delle persone in stato di detenzione in questo Paese. Nel tempo del populismo penale e del trionfo dello storytelling emozionale nella comunicazione politica, sta diventando oltremodo complesso. Farlo nel momento in cui viene arrestato il superlatitante Matteo Messina Denaro, il boss mafioso che quasi per definizione è meritevole di punizioni esemplari, pare davvero impresa impossibile. Se poi interviene il pericolo anarchico e si prospetta la saldatura tra "mafiosi, terroristi, jihadisti e brigatisti" (sto citando un parlamentare), siamo al punto da non poter neanche cominciare un discorso razionale. Eppure, ne avremmo davvero bisogno, perché rinunciare a porre domande e sollevare dubbi è sempre una sconfitta.
Il problema è lasciare che ogni ragionamento sia inficiato dal sacrosanto impegno di combattere in modo duro e inflessibile i fenomeni mafiosi o legati al terrorismo. Perché se poi ci prendessimo la briga di scendere più in profondità, allora potremmo avere un’idea radicalmente diversa della questione e renderci conto dei danni del populismo penale e delle semplificazioni a uso e consumo dell’opinione pubblica. Sul 41 bis, per esempio, dovremmo essere più lucidi, tutti.
Il 41 bis in Italia, storia e ragioni
È il 9 giugno del 1992 quando entra in vigore il decreto legge numero 306, “Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”. L’Italia, manco a dirlo, è un Paese molto diverso: l’omicidio di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e degli uomini della scorta, ha sconvolto l’opinione pubblica. Serve una reazione forte e immediata, qualcosa più di un segnale. Il governo emana un decreto per “rafforzare gli strumenti processuali, di prevenzione e di repressione nei confronti della criminalità organizzata”, che contiene una revisione complessiva delle norme in materia di esecuzione della pena. Con l’articolo 19 del decreto si modifica l’articolo 41 bis della legge numero 354 (“Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”), stabilendo la possibilità per il ministro della Giustizia (anche su richiesta di quello dell’Interno) di “sospendere, in tutto o in parte” le normali regole di trattamento dei detenuti che abbiano riportato condanne per particolari reati, quando “ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica”.
Dietro questa formulazione si nascondono alcune pratiche che principalmente servono a impedire ogni forma di comunicazione con l’esterno per particolari tipologie di detenuti. In buona sostanza, si cerca di impedire agli affiliati a organizzazioni criminali di mantenere contatti con l’esterno, in modo da spezzare le catene di comando e il passaggio di informazioni. Perché un detenuto sia sottoposto al 41bis deve esserci una ragione oggettiva (l'aver commesso una determinata tipologia di delitti), sia una soggettiva, ovvero tale “da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica ed eversiva”. È uno strumento importante, da maneggiare però con grande attenzione, come più volte ricordato da osservatori internazionali e non solo.
Come vivono i detenuti al 41 bis
Una cella singola, in cui rimanere da soli per 22 ore al giorno, senza possibilità persino di vedere le celle degli altri detenuti. Due ore al giorno in compagnia al massimo di altri tre detenuti, scelti dall’autorità giudiziaria, sempre se possibile. Un solo colloquio al mese della durata di un’ora (in luogo dei sei concessi agli altri detenuti), sotto stretto controllo di un agente di polizia penitenziaria. Nessuna possibilità di contatto umano (c’è un vetro divisorio), un colloquio telefonico al mese con i familiari (in alternativa alla visita e solo se gli interlocutori si recano in un istituto penitenziario). Non si può lasciare il carcere neanche per recarsi alle udienze. Si è soggetti ad altri divieti specifici, stabiliti di volta in volta dalle autorità, come il numero di oggetti da poter avere in cella o l'accesso a beni di consumo quotidiano. Ci sono casi in cui ai detenuti è negata la possibilità di esporre le foto dei propri familiari in cella.
In linea teorica, si tratterebbe di uno strumento preventivo: lo scopo è quello di impedire che un capo di un’organizzazione criminale continui a comandare anche se in regime di detenzione. In tal senso viene considerato essenziale l’isolamento del detenuto, non solo rispetto ai membri della sua organizzazione criminale che non sono in carcere, ma anche agli altri detenuti.
Come spiega bene un report della Fondazione Antigone, però, “vista la rigidità del suo contenuto è evidente che assuma anche un significato repressivo-punitivo ulteriore rispetto allo status di privazione della libertà”. È, per l’appunto, il carcere duro, che evoca l’idea dello stato che punisce in modo intransigente non tanto (o non solo) chi si è macchiato di reati di particolare gravità, ma chi è inserito all’interno di organizzazioni criminali e si rifiuta di collaborare con la giustizia. Questo è un aspetto particolarmente interessante della questione, perché, come si legge sempre nel report, il regime di carcere duro sembra pensato per “puntare alla redenzione”: far crollare sul piano psicofisico il detenuto in modo da spingerlo a collaborare con la giustizia, il solo vero “criterio di accertamento della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata”, come scrive la Corte Costituzionale.
Cosa non va nel dibattito sul 41 bis
Patrizio Gonnella qualche tempo fa scriveva sul Manifesto:
Il 41 bis è un regime penitenziario pesantissimo che proprio a causa della sua estrema durezza la Corte Costituzionale ha affermato che debba necessariamente essere temporaneo. L'isolamento prolungato a cui i detenuti sono sottoposti produce effetti irreversibili di de-socializzazione e de-localizzazione. I vetri divisori ai colloqui, la negazione di ogni forma di socialità, la chiusura di ogni rapporto con l'esterno sono giuridicamente e costituzionalmente tollerabili solo se limitati nel tempo.
[…] Agli inizi degli anni Novanta, ossia a pochi anni dalla sua introduzione, un funzionario dell'amministrazione penitenziaria italiana nel rispondere agli ispettori del Comitato europeo per la prevenzione della tortura di Strasburgo, affermava che il 41 bis serviva a far parlare i detenuti. Una pratica che assomiglia tanto alla tortura. Tortura che in Italia non è reato.
Luigi Manconi evidenzia con grande lucidità come il 41 bis sia ormai diventato altro rispetto alla propria ragion d’essere, quella di impedire i collegamenti tra il recluso e l’organizzazione criminale esterna. Ossia, è diventato “carcere duro”, nonostante non esista nel nostro ordinamento una “detenzione aggravata da un surplus di afflizione” e dunque non dovrebbe esistere “un carcere al quale va aggiunto un trattamento che introduce la sofferenza come pena addizionale, o divieti tali da ridurre gli spazi di vita, socializzazione ed espressione della persona reclusa”. È un punto essenziale, che spesso si tende a eludere dai ragionamenti complessivi: il 41 bis ha una precisa funzione preventiva, la cui unica finalità dovrebbe essere quella di “recidere i legami tra il detenuto e l'associazione criminale di appartenenza”. Si tratta di uno scopo che potrebbe essere raggiunto con gli strumenti attualmente a disposizione (controlli, tracciamenti eccetera), senza “infliggere sanzioni e limiti che offendono la dignità della persona e che non hanno alcuna giustificazione razionale” (sempre Manconi in una intervista per Fanpage.it). Ci sono già, in definitiva, alternative valide e aree di alta sicurezza che possono ospitare detenuti con specifiche caratteristiche.
Sul punto anche il magistrato Piergiorgio Morosini invitava a "capire se tutte le prescrizioni previste dalla normativa sono compatibili con i diritti dei reclusi", parlando senza mezzi termini della configurazione odierna come "un regime carcerario terribile, dove il rispetto dei diritti umani è veramente a forte rischio". Peraltro, la natura temporanea del regime del 41 bis sembra cozzare in qualche modo con la situazione attuale, che riguarda circa 300 condannati all'ergastolo.
Queste sono solo alcune delle considerazioni che ci fanno capire come in realtà il dibattito sul 41 bis sia viziato da una serie di distorsioni argomentative. Quella per cui si è costretti a schierarsi pro o contro il 41 bis parlando di un qualcosa di radicalmente diverso, tanto per cominciare. Nessuno potrebbe ragionevolmente dirsi contrario all'interruzione delle comunicazioni fra un boss di camorra e la sua organizzazione. Ma il 41 bis non è (più) solo questo. È una forma di afflizione aggiuntiva, che, complice la lentezza dei passaggi burocratici di revisione/eliminazione, finisce per riguardare un numero molto ampio di detenuti.
Tanti di noi, del tutto comprensibilmente, sono influenzati dal curriculum criminale e dalla pericolosità di una persona detenuta: la sete di giustizia è così forte da oscurare tutto il resto. Le immagini degli atroci crimini commessi da mafiosi o terroristi rintuzzano ogni tentativo di scendere in profondità, come se esistesse una zona franca del pensiero, in cui principi e pratiche di civiltà possono passare in secondo piano, in nome di una sorta di giustizialismo morale. Persino le luci guida della nostra comunità, la Costituzione e i codici che tutelano diritti, possono essere calpestate se ciò appare utile a punire il supercattivo di turno. La cui vita, ci hanno spiegato in loop in queste settimane, non può avere lo stesso valore delle altre, semplicemente perché lui non ha mostrato rispetto per quelle che ha preso o ha minacciato. In che baratro ci porterà questa spirale non lo sappiamo fino in fondo.
Non è un discorso di pietas, intendiamoci; non è la comprensione della sofferenza umana che dovrebbe spingerci a una seria riflessione sugli strumenti legislativi (non solo, almeno). Il punto è che l’estensione o l’applicazione delle leggi dovrebbe andare oltre il singolo caso, resistendo alla spinta emozionale del momento in nome di equità, giustizia ed equilibrio. In linea di principio, non dovremmo considerare accettabile punire in modo mostruoso neanche chi si è macchiato di crimini mostruosi; dovremmo invece reputare sempre e comunque indegna la violenza psicologica, le privazioni ingiustificate e le torture vere e proprie. Non essere consapevoli di cosa è la detenzione in regime di 41 bis, o peggio ancora, considerarne le distorsioni come meri effetti collaterali di una punizione comunque necessaria per soggetti reputati spregevoli, è un cedimento a quel populismo penale che tanti danni ha fatto e sta ancora facendo alla nostra società.
Parlare del 41 bis non significa rimodulare il giudizio sui crimini di Matteo Messina Denaro o sulle scelte di Alfredo Cospito. Né ha alcun senso porre la discussione sui metodi di protesta come "un ricatto cui lo Stato non deve cedere", mettendo nello stesso calderone forme di lotta (come lo sciopero della fame, le manifestazioni e le occupazioni) e azioni delittuose compiute da organizzazioni criminali, come purtroppo stiamo assistendo in queste settimane dominate da una narrazione tossica che sta raggiungendo vette surreali (con tutta la cautela del caso, è oltremodo ridicolo dipingere l'Italia come un Paese le cui istituzioni democratiche rischiano di cedere sotto i colpi delle manifestazioni degli anarchici).