Bombardare un ospedale è un crimine di guerra. Lanciare i razzi sulle case è un crimine di guerra. Uccidere civili è un crimine di guerra. Prendere degli ostaggi è un crimine di guerra. Li sta commettendo Israele, e li sta commettendo Hamas.
Anche i conflitti armati hanno delle regole ed è compito di appositi Tribunali internazionali giudicare chi le viola.
I tribunali internazionali più famosi della storia
Il più famoso è probabilmente quello istituito nel 1945, a Norimberga: al banco degli imputati ci sono i gerarchi nazisti ancora in vita: sono accusati di cospirazione contro la pace, crimini di guerra, genocidio, riduzione in schiavitù, deportazione e persecuzione su base razziale, politica e religiosa. Il processo di Norimberga è un momento storico fondamentale per il diritto internazionale: non solo i responsabili dell’Olocausto sono chiamati a rispondere dei loro crimini, ma vengono anche messi nero su bianco alcuni principi che dovranno valere anche per il futuro. Sono, appunto, i principi di Norimberga. Ad esempio: nel contesto della Germania nazista era perfettamente legale deportare delle persone in un campo di concentramento, ma i principi di Norimberga stabiliscono che il diritto interno di uno Stato venga meno, in presenza di un crimine internazionale come è appunto la deportazione. Oppure, moltissimi militari nazisti si difesero dalle accuse affermando di aver semplicemente eseguito degli ordini che arrivavano dall’alto: a Norimberga si stabilisce che la responsabilità penale non viene meno se si stanno eseguendo gli ordini. In altre parole, se si commette un crimine ordinato da un’autorità, si sta comunque commettendo un crimine di cui si dovrà rispondere.
Facciamo un salto avanti nel tempo, un’altra data fondamentale. Siamo all’Aja, in Olanda, è il 1993. Le Nazioni Unite creano un altro Tribunale penale internazionale, quello per l’ex Jugoslavia, con il compito di giudicare i crimini commessi nei Balcani durante le guerre scoppiate alla dissoluzione dell’Unione sovietica. Tra gli imputati principali c’è Slobodan Milošević, primo presidente della Repubblica Federale di Jugoslavia e poi presidente della Serbia, accusato di crimini contro l’umanità per la vasta operazione di “pulizia etnica” perpetrata contro la popolazione musulmana in Croazia, Bosnia ed Herzegovina e Kosovo. La sentenza nei suoi confronti, però, non arriverà mai. Nel 2006, a processo in corso, viene trovato morto nella sua cella nel carcere.
Sempre negli anni Novanta, sempre per mano delle Nazioni Unite, in Ruanda viene creato un tribunale internazionale per giudicare i responsabili di un terribile genocidio commesso durante la guerra civile nel Paese. Nel 1994 per circa un centinaio di giorni vengono massacrate tra le 500 mila e il milione di persone di etnia Tutsi, per mano degli Hutu al potere. Anche in questo caso si perseguono le gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra e in particolare, appunto, il genocidio. È un processo fondamentale, in cui per la prima volta si riconosce come lo stupro di massa sia un atto volto a perpetrare un genocidio, commesso nel tentativo di cancellare un’etnia. Nel caso del Ruanda, si arriva alla condanna degli imputati principali. Tra questi c’è ad esempio Jean Kambada, primo ministro ad interim all’epoca dei fatti, e primo capo di un governo a essersi dichiarato colpevole di genocidio. Per questo capo di accusa, ma anche per crimini contro l’umanità, viene condannato all’ergastolo, che sta tuttora scontando in Mali.
La nascita della Corte penale internazionale
Nel 1998, a Roma si svolge la conferenza che sancisce la nascita della Corte penale internazionale, il tribunale che da quel momento in poi si occuperà di giudicare i cosiddetti core-crimes cioè genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra, nonché i crimini di aggressione.
Tutti questi vengono definiti chiaramente nello Statuto di Roma, anche se le convenzioni di Ginevra del 1949, redatte dall’Onu alla fine della Seconda guerra mondiale, già avevano delimitato il perimetro del diritto internazionale umanitario e di tutto ciò che potesse configurare come crimine internazionale.
E quindi, nella pratica, di che crimini si parla?
Che differenza c'è tra crimini contro l'umanità e crimini di guerra
Per genocidio si intendono le azioni commesse con l’intenzione di eliminare completamente un gruppo nazionle, etnico, razziale o religioso. Il crimine di aggressione, che è stato aggiunto in seguito allo Statuto, è invece l’atto violento e bellicoso di una persona che ha il controllo dell’azione politica o militare di uno Stato, in violazione della Carta delle Nazioni Unite. La distinzione tra crimini contro l’umanità e crimini di guerra è invece più sottile: questi vengono definiti rispettivamente agli articoli 7 e 8 dello Statuto e si differenziano in base al contesto in cui vengono commessi, cioè se questo si inserisce in un conflitto armato o meno. Ma questo non è sempre palese, specialmente se parliamo di guerra ibrida o guerra dichiarata nei confronti di soggetti non statatli (la famosa guerra al terrorismo dichiarata da Bush figlio dopo l’11 settembre, per capirci).
Ad ogni modo, per crimini contro l’umanità si intendono diversi delitti “commessi nell’ambito di un esteso o sistematico attacco contro popolazioni civili, e con la consapevolezza dell’attacco”, così recita la definizione. Tra questi, quindi, figurano la riduzione in schiavitù, la tratta di persone, le persecuzioni eccetera. Anche quando si parla di crimini di guerra il riferimento è ad azioni commesse su larga scala, parte di un piano o di una politica: parliamo di attacchi diretti e intenzionali contro la popolazione civile, ma anche contro infrastrutture non militari (come ospedali, edifici storici o religiosi, scuole o anche musei); attacchi che comportano perdite sproporzionate di civili o danni sproporzionati all’ambiente; il trasferimento da parte della potenza occupante della popolazione civile verso altri territori. Infine, tra i crimini di guerra rientra anche l’utilizzo di alcune categorie di armi, come veleni, gas asfissianti o tossici, bombe a grappolo.
La Corte penale internazionale diventa operativa nel 2002. Vengono aperti diversi procedimenti, anche se per la prima sentenza di condanna bisognerà aspettare ben dieci anni: la prima condanna infatti viene pronunciata solo nel 2012, nei confronti di Thomas Lubanga Dyilo, dichiarato colpevole per per aver commesso crimini di guerra nella Repubblica democratica del Congo e in particolare, per aver reclutato e arruolato bambini soldati durante un conflitto armato.
Cosa sta succedendo in Israele e Palestina
Veniamo così a quello che sta accadendo oggi in Medio Oriente. Tra le indagini aperte al momento ce n’è anche una sulla Palestina. Si tratta di un’indagine avviata nel 2021 che riguarda le operazioni militari israeliane a Gaza e la costruzione degli insediamenti israeliani nei territori occupati della Cisgiordania, considerati illegali dalla maggior parte della comunità internazionale. Un mese dopo l’apertura dell’inchiesta nella Striscia sono scoppiate nuovamente le violenze, e più di un migliaio di civili palestinesi hanno perso la vita. Secondo la procuratrice capo dell’Aja di allora, Fatou Bensouda, durante gli scontri armati sia le IDF (forze di difesa israeliane) che i membri di Hamas avrebbero commesso crimini di guerra.
Nonostante Israele non faccia parte dello Statuto di Roma – e quindi formalmente non riconosca la giurisdizione della Corte – i giudici dell’Aja hanno stabilito che questa abbia comunque la competenza sui possibili crimini di guerra commessi nei territori occupati dal 2014, dal momento che le Nazioni Unite hanno riconosciuto la ratifica della parte palestinese allo Statuto nel 2015.
Allo stesso modo, la Corte potrebbe occuparsi di ciò che sta accadendo ora, aprendo una nuova inchiesta o aggiornando quella in corso. Tra video, immagini e testimonianza, le prove che siano stati commessi crimini di guerra sembrano sotto gli occhi di tutti. Arrivare a un processo è però qualcosa di incredibilmente complesso. E ci sono delle variabili puramente tecniche da considerare. Ovviamente è un terreno molto delicato: parlare di tecnicismi in guerra è complesso e anche doloroso, ma allo stesso tempo necessario per chiarire cosa sia un crimine di guerra e quando vada perseguito.
Cosa sono e cosa dicono le Convenzioni di Ginevra
Partiamo da un pilastro del diritto internazionale umanitario. Le convenzioni di Ginevra del 1949 e il Protocollo aggiuntivo del 1977 vietano le deliberate e intenzionali uccisioni di civili. In particolare, l’articolo 3 della terza Convenzione di Ginevra proibisce la “uccisione, la mutilazione, il trattamento crudele e la tortura verso coloro che non partecipano attivamente alle ostilità”. Quindi, i civili. Non solo, l’articolo 51 del Protocollo addizionale ribadisce che i civili non possano essere obiettivo di attacchi o di qualsiasi atto violento (anche solo minacciato) che ha lo scopo di diffondere il terrore tra la popolazione. Inoltre, l’articolo 34 della quarta Convenzione di Ginevra proibisce chiaramente di prendere delle persone in ostaggio durante i conflitti armati.
Queste azioni che abbiamo appena descritto sono state commesse sia da Hamas che da Israele. Nell’attacco del 7 ottobre i miliziani di Hamas hanno deliberatamente preso di mira i civili israeliani, li hanno presi in ostaggio e usati come scudi umani. Il governo israeliano, da parte sua, nel tentativo di sradicare Hamas ha bombardato indiscriminatamente la Striscia di Gaza, uccidendo migliaia di civili, tra cui anche tantissimi bambini.
Perché allora dovrebbe essere complicato, per la CPI, mobilitarsi?
Perché la morte di un civile in un conflitto armato non è sempre considerata come un crimine di guerra. Questa potrebbe anche essere l’effetto di una “legittima” operazione militare: se, ad esempio, nel bombardamento di un obiettivo militare rimanesse ucciso un civile che non si sarebbe dovuto trovare in quel luogo, non verrà aperta un’indagine per crimini di guerra.
Cosa sono i principi di distinzione, precauzione e proporzionalità
Nel pianificare un’operazione militare, però, ci sono tre principi da tenere in considerazione, per la tutela della popolazione civile, secondo il diritto internazionale umanitario. Questi sono: quello di distinzione, per cui bisogna sempre differenziare chi è impegnato nei combattimenti da chi non lo è; quello di precauzione, per cui vanno assunte tutte le misure possibili per evitare morti civili in un attacco; e quello di proporzionalità, per cui anche nel caso di un attacco che prevede la possibilità di vittime civili – o comunque feriti tra la popolazione o ancora danni all’infrastruttura civile – queste non possono mai essere “eccessive” rispetto al vantaggio militare che si ricaverebbe dall’operazione. In altre parole, una città non può essere rasa al suolo in modo indiscriminato anche se, così facendo, si annienterebbero anche le cellule terroristiche che si nascondono in quella città, ad esempio.
Chiaramente, però, anche per quanto riguarda questi principi esiste una zona grigia. Ad esempio, chiedere ai residenti di Gaza Nord di evacuare l’area prima dell’invasione di terra, come ha fatto il governo israeliano, potrebbe figurare come una corretta applicazione del principio di precauzione. Tel Aviv annuncia preventivamente che bombarderà un territorio dove ci sono obiettivi militari di Hamas in modo da lasciare alla popolazione il tempo di andarsene ed evitare così vittime civili. Il principio sembra essere rispettato, ma sul campo le cose sono un po’ diverse. Per prima cosa, a Gaza è attivo un vero e proprio blocco: allertare dell’attacco imminente una popolazione che letteralmente non può scappare, in che modo può riuscire a evitare vittime civili? Soprattutto se parliamo di oltre un milione di persone confinate in un territorio ristretto, molte già ferite e immobilizzate in un letto d’ospedale.
L’articolo 33 della quarta Convenzione di Ginevra proibisce la punizione collettiva, affermando che “nessuna persona possa essere punita per un’offesa che lui o lei non ha personalmente commesso”. L’assedio della Striscia, in cui è stata staccata la corrente elettrica e sono anche stati bloccati i flussi ordinari di acqua e cibo, in risposta all’attacco di Hamas, quindi, potrebbe configurarsi come un crimine di guerra.
Le accuse contro Tel Aviv
Non è l’unica accusa di questo tipo rivolta a Israele. Secondo Human Rights Watch l’esercito israeliano avrebbe utilizzato fosforo bianco negli attacchi su Gaza: si tratta di un agente chimico che, in un’esplosione, crea un denso fumo bianco capace di bruciare la carne umana fino all’osso. Le Nazioni Unite hanno proibito l’uso di armi di questo tipo in territorio civile, proprio perché potrebbe ferire la popolazione. Che, come abbiamo visto, è un crimine di guerra.
E poi, ci sono i bombardamenti agli ospedali. “Gli ospedali civili organizzati per prestare cure ai feriti, ai malati, agli infermi e alle donne che partoriscono non potranno, in nessuna circostanza, essere fatti segno ad attacchi; essi saranno, in qualsiasi tempo, rispettati e protetti dalle Parti belligeranti”, si legge nell’articolo 18 della quarta Convenzione di Ginevra. Purtroppo, però, le terribili immagini degli ospedali sotto le bombe e i missili a Gaza le abbiamo viste tutti.
Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha fatto sapere, dopo appena tre giorni dallo scoppio delle violenze, di aver già raccolto “chiare prove” di crimini di guerra commessi da entrambe le parti. Ma, come abbiamo visto, fare in modo che i responsabili rispondano delle loro azioni, però, non è né semplice né immediato.
C’è anche il contesto geopolitico da considerare. Per la comunità internazionale una cosa sarebbe processare i miliziani di Hamas, altra i vertici dello Stato di Israele. Per l’Occidente, che storicamente ha investito sul proprio alleato in Medio Oriente, considerandolo un fattore di stabilità in una zona che ha spesso conosciuto conflitti e fibrillazioni, risulta problematico trascinare il governo israeliano di fronte a un tribunale internazionale. Non tutti i Paesi vedono le cose allo stesso modo e per alcuni accusare ora Israele di crimini di guerra vorrebbe dire non riconoscere il suo diritto a difendersi.
In questa marea di sofferenza e di violenze, c’è però chi chiede a gran voce alla Corte penale internazionale di non voltarsi dall’altra parte, di non chiudere gli occhi di fronte alle atrocità che sono diventate quotidianità. Sono soprattutto gli abitanti di Gaza, la cui vita nella Striscia è difficilissima da anni e che, con il rinnovato scoppio della violenza, stanno subendo le più dure conseguenze del conflitto. Sono coloro che finirebbero per diventare vittime una seconda volta, se anche il diritto internazionale umanitario finisse per abbandonarli.