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Funerali Papa Francesco

Perché non ha alcun senso idealizzare papa Francesco

Tanto nell’opera pastorale quanto nelle ultime modifiche del cerimoniale funebre, Bergoglio ha voluto definire il pontefice come un “qualsiasi figlio della Chiesa”: chi lo esalta o lo attacca come leader assoluto sta perdendo di vista il suo messaggio politico.
A cura di Roberta Covelli
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Questa non è una difesa di Papa Francesco – non ne vedo il bisogno, e nemmeno il senso. In queste ore si susseguono elogi commossi e accuse feroci, celebrazioni e denunce, come se il bisogno di dire la nostra – su di lui, sul papato, sulla Chiesa – fosse diventato improvvisamente urgente.

E in effetti lo è. La morte di una figura pubblica come il papa attiva un meccanismo quasi automatico: quello del ricordo, e del giudizio, collettivo. È un rito laico e spontaneo che affianca le liturgie religiose – veglie, funerali, commemorazioni – con il racconto pubblico del passato e la costruzione (più o meno) condivisa di un’eredità.

Ma quel giudizio non riguarda solo lui. Riguarda noi: abbiamo bisogno di sentirci parte di qualcosa – di un’epoca, di un discorso, della storia -, fosse anche solo per discostarcene, per definire la nostra identità. In fondo, più che un’analisi della figura di Jorge Mario Bergoglio, la necessità di dire la nostra su di lui è un gioco di specchi, in cui si riflettono idee, idealizzazioni e delusioni.

Idealizzazione e delusione: due facce della stessa proiezione

L’idealizzazione che circonda la figura di Papa Francesco, specie ora che è morto, è comprensibile. Forse addirittura necessaria. È il modo in cui spesso elaboriamo la fine di una figura pubblica che ha incarnato tensioni storiche, spirituali, politiche. Ma, come vuole l’antico adagio, de mortuis nihil nisi bonum: dei morti si parla bene (e se non si ha niente di buono da dire non se ne parla affatto), perché parlarne è anche un modo per seppellire, metabolizzare, costruire un ponte tra il passato e ciò che ne faremo.

E non è difficile idealizzare Jorge Mario Bergoglio, che scelse il nome del santo poverello e come prime parole disse "Fratelli e sorelle, buonasera". Il pontefice di Laudato si’ e di Fratelli tutti e del sinodo. Il Papa degli ultimi, della prima visita apostolica a Lampedusa, Francesco che chiama 563 volte nell’ultimo anno la parrocchia di Gaza, che prega per la martoriata Ucraina, che chiede il cessate il fuoco e indica la via del disarmo.

Sono immagini vere, forti, a tratti mitiche. Ed è normale che emergano per prime, quando la figura si è appena trasformata in memoria. Ma l’inevitabile idealizzazione chiama in risposta un’uguale e contraria smania demolitrice: la descrizione di un papa come un rivoluzionario fa vivere come un tradimento ogni limite, ogni mancata soddisfazione delle aspettative. Ma il punto è: davvero dovremmo aspettarci da un papa quel che non riusciamo a ottenere nemmeno da capi di partiti progressisti? E le critiche più aspre sono davvero ragionevoli o sono solo reazioni a un’illusione delusa?

Se vogliamo laicità, manteniamo distinti gli ambiti

Molte delle critiche rivolte a Papa Francesco riguardano il suo conservatorismo su aborto e bioetica. La sua posizione, in realtà, non era né è una notizia: è perfettamente coerente con la dottrina cattolica, che considera vita anche quella che la legge laica potrebbe non riconoscere come tale. E, se davvero vogliamo difendere la laicità dello Stato, è fondamentale distinguere i piani.

Quando il Papa, in quanto capo spirituale della Chiesa, esprime giudizi su questi temi, parla ai fedeli, dentro una visione del mondo religiosa. Starà poi a ciascun credente, nell’intimo della propria coscienza, decidere se seguirne o meno le indicazioni. E la garanzia di quella libertà individuale non dipende dal pontefice, ma dallo Stato.

In uno Stato laico, la legge non coincide con la morale religiosa: deve invece tutelare l’autonomia delle persone. È su questo che dovremmo concentrare lo sguardo: non tanto su ciò che dicono i papi, quanto su ciò che fanno le istituzioni pubbliche e i rappresentanti di governo, soprattutto quando, nei fatti, risultano inaccessibili diritti riconosciuti, come nel caso dell’interruzione volontaria di gravidanza o del suicidio assistito.

Garantire il diritto all’aborto libero e sicuro o il rispetto delle volontà di ogni persona sul proprio fine vita non spetta alla teologia, ma all’amministrazione pubblica. Le leggi laiche si ispirano all’etica, non alla morale, e servono a garantire la massima libertà possibile. E tra le libertà ci sono pure quelle di parola e di culto, che riguardano anche i discorsi di un pontefice, pure quando la sua posizione differisce da quella della legge italiana (che, checché ne dica la ministra Roccella, considera l’interruzione volontaria di gravidanza un diritto della donna che la richiede).

Donne e stereotipi: il peso del contesto (e delle generazioni)

Anche sulle donne si concentrano molte delle critiche rivolte a Papa Francesco. Nel suo magistero, ha riconosciuto il clericalismo non solo come malattia della Chiesa, ma come forma di dominio – anche maschile. Ha nominato donne in ruoli di responsabilità, ha aperto loro il diritto di voto nel Sinodo, ha voluto ricordare il ruolo primario delle donne nella testimonianza cristiana. Eppure più di una volta si è espresso in tono paternalistico, con battute infelici basate su stereotipi. Ma anche in questo caso il giudizio richiede contesto e complessità: Bergoglio era un uomo del secolo scorso, cresciuto in un’epoca e in un’istituzione profondamente maschiliste, e non sorprende che il suo linguaggio – e talvolta la sua visione – ne rispecchiassero le strutture patriarcali.

E forse prima di pretendere che un’istituzione confessionale e gerarchica sia laboratorio di femminismo, dovremmo interrogarci su quanto patriarcato sopravviva nei contesti che riteniamo "progressisti" o persino femministi. L’autoritarismo maschile ha radici profonde anche nelle comunità più illuminate, nei partiti di sinistra, nei movimenti, nella cultura. Pretendere che in dodici anni possa avvenire in un’istituzione millenaria un cambiamento femminista significa non aver presente quanto graduali siano i mutamenti culturali (e quali dovrebbero essere i terreni più fertili in cui coltivarli).

"E il Verbo si fece carne": la parola è già azione

Di fondo, poi, nel giudizio contro Papa Francesco, c’è la critica di ipocrisia, che spesso si indirizza a chi ha un carisma comunicativo: tante parole, pochi fatti. Ma davvero le parole non sono fatti?

Spiritualmente, la parola ha un potere che non è solo simbolico. Nel Vangelo di Giovanni, il logos è la Parola che dà inizio a tutto, principio creativo e principio d’ordine, il Verbo che si fece carne. E non solo nel cristianesimo: in molte tradizioni spirituali e religiose, dalla cultura vedica al pensiero islamico, la parola è forza generativa, struttura e fondamento del reale.

Anche nella filosofia, soprattutto quella del Novecento, il linguaggio ha smesso di essere visto come semplice descrizione neutra. Per Wittgenstein, parlare non è solo rappresentare il mondo, ma agire dentro di esso. Il linguaggio è un insieme di giochi, regole, pratiche – e attraverso questi giochi costruiamo la nostra realtà, le nostre relazioni, il nostro modo di essere insieme, la nostra società e le nostre comunità. Le parole sono dunque già atti, e non semplici premesse agli atti.

È vero, i discorsi da soli non bastano. Ma servono, perché sono l’inizio di ogni trasformazione possibile. Quando si tratta di innescare cambiamenti culturali – quelli più lenti, profondi, pazienti – la parola non è neutra, ma creatrice. Papa Francesco non si è limitato a parole di fede, ma ha proposto uno sguardo critico sul pensiero dominante: ha spiegato che questa economia uccide, che il sistema mondiale è ingiusto alla radice, che non ci salveremo da soli. Nella Laudato si’ ha intrecciato ecologia e giustizia sociale, in Fratelli tutti ha criticato l’individualismo e l’indifferenza globalizzata, invocando un’alleanza tra i popoli e tra le fedi. Esprimersi chiaramente contro le guerre e il mercato delle armi, pregare pubblicamente per gli ultimi (stando loro privatamente accanto, dalla parrocchia di Gaza al pastificio del carcere minorile di Casal del Marmo), dire che la camorra spuzza, usare parole dure (e pubbliche) contro gli abusi del clero, parlando di vergogna e di crimini mostruosi, sono tutti atti linguistici che rompono l’omertà, che nominano l’ingiustizia e le tolgono potere.

Perché cercate tra i leader un qualsiasi figlio della Chiesa?

Don Tonino Bello – che proprio Papa Francesco ha voluto dichiarare venerabile – sosteneva "Non dobbiamo più avere i segni del potere, ma il potere dei segni". È una scelta apostolica che sembra applicarsi anche al pontificato di Bergoglio: un uomo che ha dismesso molte delle insegne tradizionali del comando per attribuire al papato un ruolo di servizio. Non ha voluto vivere nel palazzo apostolico, ha scelto paramenti semplici; anche le sue risposte hanno spesso spiazzato chi si aspettava oracoli implacabili: il famoso "chi sono io per giudicare?" può sembrare un’apertura timida per il mondo LGBTQI+, ma è una crepa profondissima nella concezione del papato come potere assoluto, con il sovrano infallibile che si sottrae al ruolo di giudice, dichiarandosi privo dei titoli per farlo, in un moderno "Chi è senza peccato, scagli la prima pietra", che condanna chi condanna.

Nell’esercizio della propria autorità, Francesco ha ridotto l’autorità: più di altri, Bergoglio ha enfatizzato il ruolo della comunità ecclesiale, aprendo il cammino sinodale, invitando le suore a partecipare oltre che a servire, ponendo il papa come un uomo tra gli uomini, il cui potere consiste nella prossimità più che nella distanza. Anche nella modifica dei riti funebri, papa Francesco ha ridimensionato e smitizzato la figura del pontefice. Non si tratta solo di una scelta per sé, presente nel suo testamento e legata alla sua persona, ma di un cambio di cerimoniale anche per i futuri papi, che prosegue il percorso di apertura e diffusione del potere nella Chiesa, presentando il pontefice come un "qualsiasi figlio della Chiesa". E allora, parafrasando le parole evangeliche sulla resurrezione – "perché cercate tra i morti colui che è vivo?" – si potrebbe dire di papa Francesco: perché cercate tra i leader un qualsiasi figlio della Chiesa?

Chi lo ha idealizzato – nel bene o nel male – spesso è lo stesso che gli rimprovera di non aver esercitato un potere assoluto che lui ha sempre rifuggito. E proprio in questo sta la sua radicalità: nell’aver messo in discussione l’idea stessa di potere ecclesiastico come dominio, riconoscendo invece il potere trasformativo della comunità, del cammino sinodale, del dubbio, dell’ascolto. Francesco non ha incarnato un'utopia, ma ha mostrato una tensione, un orientamento, una possibilità, senza mai negare l’imperfezione, la finitezza dell’essere umano. Forse il suo lascito sta proprio qui: non in ciò che ha imposto, ma in ciò che ha saputo indicare.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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