Maria Elisabetta Casellati, una donna che non usa il proprio cognome ma quello del marito, candidata a Presidente della Repubblica. E Letizia Moratti, che in veste di assessora al Welfare della Lombardia chiese all'allora commissario Arcuri di considerare anche il PIL di una Regione tra i parametri per assegnare le dosi di vaccino anti Covid, anch’essa, pare, in corsa per il Quirinale. Roberta Metsola, strenua antiabortista anche in casi di stupro o pericolo di morte legato al parto, eletta Presidente del Parlamento europeo con ben 458 voti, una maggioranza larghissima. Con ogni evidenza, candidare una donna non significa candidare una femminista, né basta indicare il sesso di una candidatura, quale che sia, per assicurarsi certe qualità anziché altre. Magari fosse così facile.
Altro che Berlusconi, una donna al Quirinale assicurerebbe “intuito e cura dei dettagli”, ha detto in diretta tv Amalia Ercoli-Finzi, luminare dell'ingegneria aerospaziale internazionale nonché consulente scientifico della NASA, dell'ASI e dell'ESA, “doti che non mancano a Berlusconi, però”, hanno ribattuto in studio. Ecco, appunto. Intendiamoci, parlare di candidature femminili in relazione a posizioni strategiche per la collettività nazionale e internazionale è un’opportunità – o almeno, dovrebbe esserlo – per rendere la parità di genere non più un’ambizione soggettiva ma un fatto oggettivo, che come tale non necessita di giornate internazionali, fiori, sfiati rabbiosi, guadagni per influencer e società di marketing, eccetera.
Eppure siamo sempre con la melma della retorica fin qui, sopra i polpacci, persino un po’ imbarazzati. Chi fino a ieri voleva una donna al potere, come si vuole l’acqua prima del caffè, la pace nel mondo, il ventre piatto, gli auguri di compleanno dell’ex, oggi tace. Non può esultare per la candidatura, ad esempio, di una antiabortista, ma non può nemmeno cancellare i ripetuti proclama pseudo-femministi a suon di “dove sono le donne?”. Già, dove sono le donne? Donne con un nome, un cognome (possibilmente proprio), un curriculum e una biografia che parlino sì di integrità, intelligenza e amore per l’Italia ma che parlino, brillino di doti politiche. Davvero bisogna appellarsi alla Casellati e alla Moratti o pescare tra le astronaute e le scienziate per assicurare al paese una figura “non divisiva” che coniughi l’alto profilo con le doti politiche, po-li-ti-che? Perché recuperare il tessuto sociale sfilacciato, rilanciare l’economia non più a scapito dei lavoratori e dell’ambiente, tutelare la sanità pubblica proteggendola dalla privatizzazione selvaggia, sono sfide politiche, da superare con doti squisitamente politiche. Chiaro e semplice. Ma è passato così tanto tempo dalle ultime elezioni e sembrano così lontani i tempi della politica fatta dai politici, non dai comici e dai tecnici, ma dai politici, che a parlare di doti politiche ci si sente bambini impudichi alle prese con una certa strana lingerie della nonna rinvenuta in fondo al baule.
Ha ragione la giornalista Lea Melandri quando dice che “non ha senso, ed è rischioso, chiedere una rappresentanza di ‘genere’, in assenza di una candidatura che possa entrare nell'istituzione con la consapevolezza e la combattività prodotta dalla cultura e dalle pratiche politiche del femminismo”. Tanto più che, come scriveva già all’inizio del ventesimo secolo He Zhen, anarco-femminista cinese, nel suo Problems of Women’s Liberation: “La maggioranza delle donne è già oppressa dal governo e dagli uomini. Il sistema elettorale semplicemente accresce la loro oppressione aggiungendo un terzo livello di governo: le donne dell’élite (…) Se la maggior parte delle donne non vuole essere governata da uomini, perché accetterebbe invece di esserlo da poche donne delle élite?”. Smettiamola allora di urlare che al Colle “serve una donna”, una donna qualunque, purché donna, credendo che tanto basti per assicurarci un futuro felice. No, grazie. Come se avessimo accettato.