Era il 3 aprile scorso quando, alla vigilia del primo giro di consultazioni, Di Maio propose un contratto di governo: “Ci rivolgiamo o al Partito Democratico o alla Lega di Matteo Salvini”. L’offerta consisteva in un tavolo di negoziazione di un contratto sul modello tedesco, che permettesse la nascita della legislatura, a partire dal lavoro commissionato al professor Della Cananea (che qualche giorno dopo avrebbe elaborato uno scarno documento, piuttosto deludente, per la verità). La conditio sine qua non posta dai 5 Stelle era la rottura dell’unità della coalizione di centrodestra, con il partito di Salvini che veniva individuata come unico interlocutore e partner del “governo del cambiamento”. In sostanza, a Salvini veniva chiesto di scaricare Berlusconi e Meloni. Più di 40 giorni dopo, a seguito delle vicende che conoscete, siamo davanti a uno scenario di questo tipo: un tavolo di negoziazione sul programma con rappresentanti dei due partiti e la possibilità di indicare un nome condiviso da Di Maio e Salvini. Tra mille difficoltà, retromarce e avvicinamenti, innamoramenti e polemiche, e nelle more della complessa individuazione del nome cui affidare la poltrona di Palazzo Chigi, insomma, si è concretizzata la linea dei 5 Stelle e potrebbe nascere un governo giallo – verde, con ministri della Lega e del Movimento.
La domanda, a questo punto, è semplice: perché Salvini ha impiegato tutto questo tempo per accettare la proposta di Di Maio?
Ecco, se la domanda è semplice, la risposta non lo è affatto. Prima di tutto, perché esiste una “versione ufficiale” e pazienza se fa acqua da tutte le parti. Nella ricostruzione autorizzata, tanto dal centrodestra che dal M5s, la scelta di Salvini è stata determinata dalla necessità di rompere lo stallo venutosi a creare dopo i veti incrociati dei partiti, emersi nel corso dei tentativi orchestrati dal Presidente della Repubblica. Di fronte alla prospettiva di un governo tecnico (che poi non si capisce chi lo avrebbe votato), o comunque di elezioni in piena estate, la Lega si sarebbe rimessa al senso di responsabilità di Berlusconi, il quale avrebbe acconsentito a far partire il governo, senza rompere la coalizione di centrodestra, pur collocandosi all'opposizione. Dopo il via libera del Cavaliere, dunque, Salvini avrebbe deciso di aprire ai 5 Stelle per senso di responsabilità verso gli italiani, nonostante i sondaggi fossero favorevoli alla Lega nel caso di un immediato ritorno alle urne.
La realtà dei fatti è più complessa. Come spesso accaduto negli ultimi anni (e anche nella recente campagna elettorale), si tende a enfatizzare il peso e l'impatto di Silvio Berlusconi sull'agenda politica, attribuendogli dei poteri di vita e di morte che non ha, almeno non più. Per settimane si è detto e scritto che il centrodestra dovesse essere considerato come un soggetto indivisibile, coerentemente con l'offerta politica fatta agli elettori. Era chiaro, i fatti di queste ore lo stanno dimostrando, come ci fossero i margini per uno strappo, sul modello di quello fatto dallo stesso Berlusconi nel 2013 (anche in quel caso non ci furono ripercussioni sulla tanto sbandierata "unità del centrodestra", che si presentò compatto pressoché ovunque ad amministrative e Regionali successive), e come la Lega potesse comunque farsi portatrice del programma condiviso in sede di trattativa coi 5 Stelle. Ancora, si è spiegato come l'ostacolo fosse il veto ad personam messo da Di Maio su Berlusconi: un veto che non è mai caduto (non può bastare qualche mezza frase decontestualizzata…), cui si è aggiunto anche quello esplicito nei confronti di Giorgia Meloni. Infine, si è detto che in caso di strappo Berlusconi avrebbe sancito la fine delle alleanze sul territorio, facendo cadere "le giunte del Nord" e provocando dunque il caos all'interno della compagine leghista. Anche in questo caso, la realtà è molto lontana dai retroscena e dal wishful thinking della componente berlusconiana. Salvini controlla direttamente Veneto, Lombardia e Friuli Venezia Giulia (ci torneremo), in Liguria c'è Tosi che è sempre più vicino alla Lega; da settimane, ormai, è in corso una lenta ma decisa trasmigrazione dalle fila forziste a quelle leghiste, che investe amministratori e dirigenti; le alleanze territoriali seguono sempre logiche diverse da quelle nazionali, per tante (più o meno buone) ragioni. Insomma, il Cavaliere si è trovato con le armi spuntate, incapace di minacciare ripicche di una certa rilevanza (probabilmente solo nel Consiglio Regionale lombardo il peso di FI avrebbe potuto rappresentare un problema, ma come assumersi la responsabilità di perdere la prima Regione italiana?), e per di più persuaso da tempo che una alleanza Lega – M5s fosse la miglior soluzione possibile per traghettare Forza Italia fuori dal pantano (qui abbiamo provato a spiegarvi il perché).
Insomma, non era Berlusconi il problema principale con cui Salvini dovesse fare i conti. Le ragioni per non rompere erano (e sono) altre. In primo luogo, Salvini ha sperato fino all'ultimo che Mattarella cedesse e gli affidasse l'incarico per "cercare i voti in Parlamento": una missione tutt'altro che impossibile, nella lettura anche di Berlusconi e Meloni, considerata la presenza di fuoriusciti grillini, di "amici" eletti nelle fila del PD e via discorrendo. Il Capo dello Stato, però, ha sempre escluso la possibilità di un esecutivo di minoranza e non avrebbe concesso a Salvini la possibilità di andare al buio in Parlamento, col rischio che poi fosse il leader leghista a dover gestire gli affari correnti al posto di Gentiloni.
Già detto della necessità di attendere il voto in Friuli Venezia Giulia, da affidare a un altro fedelissimo e cementare il blocco al Nord (con la grande speranza di vedere la marea leghista conquistare anche l'Emilia Romagna e riprendersi il Piemonte), c'era poi un aspetto dirimente, che bloccava Salvini dal dialogare da solo coi 5 Stelle. Un conto è sedersi al tavolo delle trattative da leader di una coalizione che ha preso il 37%, un altro è farlo da leader di un partito che ha preso il 17%. Se ne sta accorgendo adesso, Salvini, ed è la ragione della sua brusca frenata di queste ore sulla possibilità di un accordo coi 5 Stelle. Di Maio, è cosa nota, continua a chiedere l'investitura a Palazzo Chigi e non ha torto: in caso di alleanze politiche non è inusuale che il leader del primo partito sia anche il capo del governo. Si discute di programmi, di accordi, di mediazioni e compromessi, ma non è assurda la pretesa dei 5 Stelle di indicare un nome cui affidare il patto di governo. E tali rischiano di essere anche i rapporti di forza futuri in un esecutivo coi 5 Stelle: una subalternità che il leader leghista non può accettare a cuor leggero, soprattutto perché rischia di compromettere la sua idea di "azione di governo". Con margini di manovra ridotti a causa della scarsità di risorse, senza un paracadute politico, senza un piano B (chi dice che il ritorno alle urne non determini nuovamente la stessa situazione?), regalando al PD e a FI tempo per ricostruire, siamo davvero sicuri che a Salvini convenga fare il partner di minoranza del governo 5 Stelle?