Che il Meccanismo Europeo di Stabilità, per gli amici Mes, sia da sempre uno spauracchio agitato dagli euroscettici e dai nazionalisti come prova regina dell’esistenza di un’eurocrazia che ci togli sovranità per regalarla a Bruxelles, con la tacita complicità delle élite europeiste, non è una novità. Che per la prima volta questa canea, col voto contrario alla ratifica delle modifiche del Mes, diventi linea ufficiale del governo italiano, e di buona parte della maggioranza che lo sostiene, invece sì, lo è eccome.
Bisogna partire da qui, per capire cosa sta succedendo in queste ore. Per poi scendere uno scalino alla volta e farsi qualche domanda su perché sia successo e su cosa succederà d’ora in poi.
Perché è successo, innanzitutto. All’atto pratico, per due ordini di ragione distinti, uno tattico e l’altro strategico. Partiamo dalla tattica: il governo stava negoziando con Bruxelles su tre distinte partite, in queste ultime settimane del 2023. La più importante delle tre riguarda le nuove regole del Patto di Stabilità e Crescita, quell’insieme di parametri che la Commissione Europea utilizza per promuovere o bocciare la legge di bilancio di uno Stato membro. La seconda, in ordine d’importanza è quella relativa al prossimo bilancio dell’Unione Europea, dal quale l’Italia si aspettava soldi per gestire i flussi migratori e per le imprese in difficoltà.La terza era, per l’appunto, la ratifica del trattato di modifica del Meccanismo Europeo di Stabilità e sembrava più una formalità che altro, per diversi ordini di ragioni.
Il primo: perché di fatto l’Italia già aveva già negoziato e approvato nel merito le modifiche al trattato, coi ministri Tria e Gualtieri durante i governi Conte I e II. Il secondo: perché di fatto, quelle modifiche non cambiano nulla o quasi relativamente ai meccanismi di funzionamento del Mes, salvo farlo rientrare a pieno titolo nell’alveo del diritto comunitario – fino ad ora è una società di diritto privato che ha degli Stati come sottoscrittori – e dargli più soldi e potere nella gestione delle crisi delle banche, oltre a quelle degli Stati. Il terzo: perché da quando il Mes esiste nessun Paese ha mai chiesto di attivare le linee di finanziamento per rispondere a un attacco speculativo contro il proprio debito sovrano.
Quest’ultimo punto, che molti oppositori del Mes, additano a suprema prova dell’inutilità di questo “fondo Salva Stati”, è in realtà un ottimo argomento a favore della sua sopravvivenza. Un prestatore di ultima istanza che garantisce una linea di credito aperta a un debitore insolvente – quale può essere uno Stato con un debito pubblico abnorme e lo spread alle stelle – è infatti il miglior deterrente possibile affinché i mercati scommettano sul suo default. Detto in altre parole: il Mes non è un ombrello da aprire quando piove, ma uno strumento per evitare che piova.
Questo valeva fino a ieri, quando la Banca Centrale Europea rastrellava titoli di debito attraverso il Quantitative Easing e i tassi d’interesse erano sotto zero. E vale ancora di più oggi, coi tassi d’interesse che sono tornati a crescere e con la Bce che sta rallentando i suoi acquisiti di debito pubblico, cosa che nemmeno rientra nei suoi obiettivi statutari, peraltro. Modificare il Mes aveva questo preciso obiettivo, del resto: far rientrare nell’alveo delle istituzioni europee un ente di diritto privato che lo era de facto. E far tornare la Bce a fare quel che dovrebbe fare.
Torniamo alle ragioni tattiche, quindi. In estrema sintesi, l’Italia – che in questi anni di pandemia e guerra – ha approfittato di tutte le deroghe possibili alle regole del “vecchio” patto di stabilità – aveva bisogno di un po’ di ossigeno per rientrare nei parametri. Nei fatti, di un ulteriore biennio di deroghe rispetto a nuovi parametri che sì, avrebbero previsto più deroghe e discrezionalità in capo alla Commissione, ma anche paletti più rigidi per gli Stati sovra indebitati. In questa battaglia, Meloni aveva trovato nel presidente francese Macron – anche lui con un deficit molto importante da dove gestire – un insolito alleato. L’accordo franco-tedesco dei giorni scorsi, nei fatti, ha lasciato l’Italia a mani vuote e col cerino in mano.
Lo stop alla riforma del Mes, più che una ripicca, è stata una mossa della disperazione per riaprire la partita negoziale. E anche, già che ci siamo, una mossa pre-elettorale, per evitare a Salvini il presidio dell’anti-europeismo – dopo che Meloni aveva per anni tuonato contro le eurocrazie, i fondi salva Stati e quelli salva banche – e per trovare un nuovo nemico esterno da dare in pasto all’opinione pubblica, dopo i rave, i migranti, il gender e Roberto Saviano.
Cambierà qualcosa per l’Italia? Probabilmente no. Il Mes esiste anche senza modifiche ai trattati e continuerà a svolgere la sua funzione di deterrente anche senza la ratifica dell’Italia. Quel che cambia, semmai, è altro, ed è la ragione strategica dietro al No di Giorgia Meloni e del suo governo: la volontà di promuovere un’Europa delle Nazioni in cui le ingerenze di Bruxelles siano ridotte al minimo indispensabile, che per la destra italiana vuol dire presidio dei confini e soldi agli agricoltori.
Il Mes, anche solo in ragione della sua esistenza nei trattati comunitari, è fumo negli occhi per chi, come Meloni e Salvini, vuole avere le mani libere per spendere quel che vuole quando vuole e come vuole. Il problema, semmai, è quella solita fastidiosissima cosa chiamata realtà. Perché il nostro debito rimane enorme e la nostra vulnerabilità finanziaria pure, con o senza riforma del Mes. Così come, del resto, rimane fragile buona parte del nostro sistema bancario, che di certo non beneficia di un’economia in salute e in crescita. Con il nostro No abbiamo semplicemente reso ancora più debole e delegittimata la nostra presenza in Europa. E contestualmente, abbiamo impedito scientemente all’integrazione delle istituzioni europee di fare un piccolo passo avanti. Dal 9 giugno capiremo quanto peserà questo disegno strategico negli equilibri europei. E forse questo è il cuore di tutta la vicenda.