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Perché l’Italia è ancora l’ultimo Paese UE per occupazione femminile, nonostante i proclami di Meloni

Giorgia Meloni ha rivendicato più volte che in Italia non ci sono mai state così tante donne occupate. Ma l’aumento dell’occupazione è iniziato ben prima che l’attuale governo entrasse in carica. E i dati Ue mostrano la verità: le italiane continuano a essere le meno occupate d’Europa, ma anche la qualità del lavoro è all’ultimo posto della classifica. Mentre la manovra 2025 non promette nessun miglioramento.
A cura di Jennifer Guerra
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Un mese fa Giorgia Meloni vantava, seppur con un evidente lapsus, che durante il suo governo c’è il tasso di occupazione femminile più alto di sempre, attribuendo questo suo successo al fatto che lei non si fa chiamare "presidenta", ovvero che si occupa di sostanza e non di forma. In effetti, il numero delle donne che lavorano ha raggiunto la quota più alta dal 2004, ovvero da quando vengono registrati i dati mensili sugli occupati raffrontabili con quelli attuali, ma il trend positivo sull’occupazione è cominciato molto prima dell’insediamento del suo governo, cioè nel 2021 con Draghi.

Sentendo Meloni, sembra che il nostro Paese abbia raggiunto risultati straordinari su questo fronte, ma in realtà il quadro è desolante, come conferma la recente pubblicazione dell’Indice europeo per la parità di genere: non solo le italiane continuano a essere le meno occupate d’Europa, ma anche la qualità del lavoro è all’ultimo posto della classifica.

L’Indice viene pubblicato ogni anno dall’Istituto europeo per la parità di genere (EIGE), che assegna un punteggio da 0 a 100 sulla base di sette indicatori: il denaro, il sapere, il tempo, il potere, la salute, la violenza e, appunto, il lavoro. Quest’anno l’Italia ha totalizzato un punteggio di 69,2, contro una media europea di 71, trovandosi quindi al 14esimo posto fra gli Stati dell’Unione. Dal 2010 l’Italia è il Paese che ha incrementato di più il proprio punteggio, avanzando di ben sette posizioni. Tuttavia, questi miglioramenti hanno interessato tutti i settori tranne quello del lavoro.

La voce dedicata al lavoro a sua volta prende in considerazione diversi fattori: la partecipazione, cioè la percentuale di donne che lavora a tempo pieno e la durata della vita lavorativa, e la segregazione, che riguarda invece i settori in cui le donne sono più occupate, la possibilità che hanno di prendere permessi per la cura di figli o parenti non autosufficienti e le prospettive di carriera.

Per quanto riguarda la partecipazione femminile al lavoro, l’Italia è all’ultimo posto in Europa: solo il 32% delle italiane è impiegata a tempo pieno, contro il 52% degli uomini italiani e una media delle donne europee del 44%. Anche la qualità del lavoro è pessima: alle prospettive di carriera (un indice che considera la stabilità dei contratti e le possibilità di licenziamenti o promozioni) è assegnato un punteggio di 52 su una scala da 0 a 100, quando la media europea è superiore di ben dieci punti.

Le donne in coppia con figli risultano le più penalizzate se confrontate con le loro omologhe europee, mostrando quanto ancora ci sia da fare per le madri lavoratrici. I risultati dell’Italia sull’occupazione femminile sono aumentati di pochissimo rispetto allo scorso anno e riflettono una sostanziale stagnazione da quando l’EIGE ha cominciato a compilare l’indice europeo per la parità di genere dieci anni fa. Se è vero quindi che nessun governo è riuscito a introdurre politiche efficaci per questo enorme problema sociale e culturale, è anche vero che Meloni continua a presentarsi come l’unica che si sta impegnando a risolverlo, ponendo spesso e volentieri l’attenzione sul fatto che anche lei, in fondo, è una madre lavoratrice come tutte le altre.

Ma per le madri lavoratrici ha fatto ben poco e sembra intenzionata a non fare molto altro, almeno stando a quello che è previsto dal disegno di legge della manovra. Nella legge di bilancio il governo vuole confermare le politiche già adottate in quella dello scorso anno, puntando ancora una volta su bonus e sgravi fiscali, di cui tra l’altro possono beneficiare le madri con almeno due figli.

Continuano a mancare interventi strutturali: ormai è chiaro che Meloni ha rinunciato all’obiettivo di garantire il 33% di posti negli asili nido entro il 2027 e che ha usato solo il 26,4% dei fondi del Pnrr stanziati a questo scopo. Anche se ha aumentato di un mese il congedo parentale con la retribuzione all’80%, la proposta delle opposizioni di introdurre quello di paternità con una durata di tre mesi è stata bocciata. Gli incentivi non creano occupazione né aumentano le nascite, altro cavallo di battaglia del governo.

Il tema del lavoro delle donne è molto importante per la retorica di Meloni, che lo usa per smarcarsi dall’accusa di essere una tradizionalista che sogna un’Italia in cui le donne restano chiuse in casa a sfornare bambini. Di fatto, accusa le "femministe" (che per ora non governano il Paese) della stessa cosa che fa lei: usare le questioni di genere come terreno simbolico senza fare nulla di concreto per loro. E, nel caso del lavoro, prendendosi pure meriti che non ha, non solo perché la risibile crescita dell’occupazione femminile non è cominciata grazie alle inconsistenti politiche di Meloni, ma anche perché non bisognerebbe fare un vanto di governare un Paese dove metà delle donne continua a non lavorare.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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