Quindi, facciamo due conti: nel 2024, a due anni dalle ultime elezioni politiche, si è votato in Sardegna, Abruzzo, Basilicata, Piemonte, Liguria, Emilia Romagna e Umbria. Sette regioni su venti, 14 milioni di persone in tutto. Sei di queste regioni erano governate dalla destra, una sola dalla sinistra. In questa tornata elettorale, la sinistra ha vinto tre regioni su sette, strappando due regioni alla destra. In tutti e tre i casi, lo ha fatto con un’alleanza incardinata sull’asse Pd-Cinque Stelle-Avs.
Questa è la fredda cronaca dei fatti. Che stride, piaccia o meno, con la narrazione che vorrebbe l’Italia saldamente nelle mani della destra guidata da Giorgia Meloni, con un’opposizione balcanizzata, subalterna, senza leader e senza speranze di invertire la tendenza. Intendiamoci: non stiamo dicendo che la narrazione opposta – che ci sia un’ondata di sinistra in atto, per intenderci – sia quella corretta. Stiamo dicendo che forse, questa narrazione schiacciata sull’onnipotenza di Giorgia Meloni è quantomeno esagerata.
Allo stesso modo, asserire che la strada per le opposizioni sia quella giusta, non vuol dire che non ce ne sia ancora tantissima da percorrere.
Innanzitutto, a Pd, Cinque Stelle e Avs –non aggiungiamo Calenda e Renzi per carità di patria – manca una piattaforma ideale, prima ancora che programmatica, su cui incardinare una proposta di governo alternativa. E manca anche quell’attitudine all’alleanza che non ti fa mettere in discussione tutto anche quando perdi male, o quando le percentuali di questo o di quel partito calano in favore dell’altro. In questo, la destra ha lezioni da dispensare, figlie di una coalizione consolidata che, dopo decenni, resiste a qualunque rovescio elettorale e a qualunque travaso interno.
Per questo, probabilmente, il banco di prova più gravoso che toccherà alle opposizioni è quello delle regionali del 2025, in cui a essere messe in gioco saranno altre sei regioni, tre delle quali con un governatore di sinistra come Campania, Puglia e Toscana. Tre partite complesse – soprattutto quella campana – in cui una o più sconfitte potrebbero minare alle basi l’equilibrio fragile che Schlein, Conte e Fratoianni stanno cercando faticosamente di costruire. E che, al pari, potrebbero costituire per la destra tre storiche vittorie su cui cementare la loro forza.
Molto dipenderà dallo stato di salute del governo Meloni, che in questi due anni di vita, senza fare niente di trascendentale, ma anzi passando di gaffe in gaffe e di scandalo in scandalo, è riuscito addirittura a incrementare il proprio consenso, come dimostra il risultato delle ultime elezioni europee. Segnale di un legame profondo con l’elettorato, certo. Ma anche di quella sorta di inerzia che, in molti casi, è più la mancanza di una reale alternativa a generare.
Questa è in fondo la lezione che le opposizioni devono trarre, da questo giro elettorale del 2024. Che più la partita sembra contenibile, più il consenso verso il governo Meloni può essere messo in discussione. E più il consenso per il governo è in discussione, più ci sono speranze di vincere elezioni in grado di cementare la fragile alleanza alternativa alla destra, e di togliere certezze agli avversari. Non basta, ma è necessario.
Nel 2024, forse l'hanno capito, e gli ha detto bene. Perché la vera partita arriva adesso.