Qualche giorno fa, Maria Elena Boschi, ministra delle Pari opportunità, ha postato su Twitter la notizia dell’equiparazione degli stipendi di calciatori e calciatrici della Nazionale norvegese. Il tweet, con cui si promette peraltro l’apertura di un tavolo sul tema con il Ministro dello Sport Lotti, ha suscitato diverse reazioni, dallo sberleffo alla polemica. Maria Elena Boschi aveva chiarito meglio il suo pensiero su Facebook, specificando: “Partire dallo sport è un segnale forte e simbolico”.
Certo, da parte di chi è stato elemento chiave di un governo che ha ulteriormente precarizzato il lavoro, penalizzando quindi anche le donne (il decreto Poletti, liberalizzando i contratti a termine, permette ad esempio di aggirare di fatto la tutela della maternità), appare un tardivo tentativo di patinare un problema serio per l’occupazione femminile. Ma l’umiliazione del calcio femminile esiste e merita di essere affrontata.
Pur essendo infatti lo sport più diffuso in Italia (con più di un quarto dei tesserati totali), il calcio è praticato per il 98% da maschi: sono solo 23,196 le donne tesserate alle federazioni nazionali secondo il rapporto 2015 del Centro Studi e Osservatori Statistici per lo Sport per il CONI. Eppure, anche se è il calcio maschile ad attirare maggior attenzione (e, con essa, sponsor e introiti), il caso italiano è particolarmente frustrante per le atlete: secondo i dati UEFA, in Germania le tesserate sono 209,713, in Francia 106,612. in Gran Bretagna 106,910. Danimarca e Norvegia, pur avendo un numero di abitanti decisamente inferiore a quello italiano, contano rispettivamente 153mila e 100mila atlete, per non parlare dell’Islanda, che vanta poco meno di un terzo delle tesserate italiane a fronte di una popolazione numericamente non molto diversa da quella di Bari.
D’altronde, nonostante i progetti di sviluppo, anche le figure istituzionali mostrano poco rispetto per il calcio femminile: Tavecchio, presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio, si stupiva di trovare molto simili le prestazioni sportive maschili e femminili, dal momento che, spiegava a Report, “finora si riteneva che la donna fosse un soggetto handicappato rispetto al maschio”; e Belloli, nel 2015, da presidente della Lega Nazionale Dilettanti, avrebbe risposto alla richiesta di finanziamenti al calcio femminile commentando: “Basta, non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche”.
A preoccupare, però, non sono solo le prese di posizione degli attori istituzionali, quanto il fatto che Belloli (che, peraltro, per quell’uscita fu sfiduciato e inibito per quattro mesi) rappresentava la Lega Nazionale Dilettanti: questo perché, a causa della mancata qualificazione della differenza tra atleti professionisti e dilettanti da parte del Coni, le singole federazioni sono libere di gestire come preferiscono i propri tesserati. E, per quanto riguarda il calcio (ma non solo), non esistono donne professioniste. Non è solo una questione di prestigio, quanto piuttosto la negazione di un complesso di diritti: gli atleti professionisti, infatti, godono delle tutele della legge 91/1981, particolarmente importanti in materia di assicurazione contro i rischi, trattamento pensionistico e tutela sanitaria, da cui le calciatrici sono quindi automaticamente escluse.
Ma la sottorappresentazione femminile non si ferma al calcio. Secondo il citato rapporto CONI riferito a tutte le discipline sportive, meno del 27% dei tesserati sono donne, mentre i maschi raggiungono il 73%. Questa proporzione tra occupazione maschile e femminile è confermata anche tra le professionalità di supporto e sostegno (tecnici, dirigenti, ufficiali di gara): quattro lavoratori su cinque sono uomini.
Con le dovute differenze, la tendenza si registra anche all’estero, in particolare rispetto al fenomeno dell’abbandono precoce dello sport, il cosiddetto drop-out. Secondo una ricerca sponsorizzata da Always, dai 14 anni la percentuale di ragazze che abbandonano la pratica sportiva è il doppio di quella maschile: durante la pubertà, più della metà delle atlete lascia lo sport. Sette su dieci dichiarano di non essersi sentite tagliate per l'attività, il 67% ammette che la società non incoraggia le femmine a praticare sport. Secondo un altro studio condotto su ragazze tra i 16 e 24 anni, l’89% delle intervistate ritiene che ci sia una pressione per conformarsi al modo in cui si suppone debba essere e apparire una ragazza.
Si tratta di uno dei tanti condizionamenti che, nella fase di formazione della personalità, porta le donne a limitarsi e autocensurarsi: così, stereotipi e gabbie mentali riducono lo sviluppo delle potenzialità. Il problema era emerso anche rispetto ai libri per bambini: secondo una ricerca dell’università della Florida, infatti, nel 57% dei libri il personaggio centrale è un maschio, contro il 31% di storie con un personaggio femminile come protagonista e, mentre esistono storie nelle quali sono completamente assenti personaggi femminili, in tutti i libri analizzati c’è sempre almeno un personaggio maschio.
Tornando allo sport, l’abbandono della pratica da parte delle ragazze è particolarmente limitante se si guarda allo studio di Ernst & Young e espnW, secondo cui il 61% di donne dirigenti afferma che gli sport hanno influito sul successo della loro carriera e il 94% di donne che ricoprono ruoli C-suite (i livelli dirigenziali più alti) ha praticato sport, più della metà delle quali a livello universitario.
Insomma, l’affermazione della ministra Boschi può forse apparire fuori tempo massimo (la richiesta di adeguare il trattamento degli atleti disciplinando le differenze tra professionisti e dilettanti risale almeno al 2015), ma ha il merito di porre in agenda una questione seria, non tanto perché simbolica, quanto perché rappresenta l’ennesimo campo in cui lo sviluppo della personalità della donna viene limitato, con un danno per la popolazione femminile, e, come sempre accade quando vengono frustrate le potenzialità dei singoli, per il progresso della società intera.