Per accedere alle case popolari bisogna aver avuto la residenza in Veneto per almeno cinque anni, anche non consecutivi, negli ultimi dieci. Era questa la norma regionale sull’edilizia popolare dichiarata incostituzionale, ancora una volta, dalla Consulta.
Se le notizie si caratterizzano per la loro novità, per l’eccezionalità del fatto raccontato rispetto al normale fluire degli eventi, questa potrebbe non essere una notizia: non è infatti la prima volta che la Corte costituzionale deve intervenire su casi del genere, così come hanno fatto e fanno Tribunali, Corti d’appello, giudici di Cassazione e perfino la Corte di giustizia dell’Unione europea. Eppure i requisiti illegittimi, irragionevoli e discriminatori continuano a essere previsti da molte norme regionali e locali per l’accesso all’edilizia popolare, ai bonus sociali, ai servizi pubblici di assistenza.
Il dovere pubblico di assistere chi ha bisogno
L’assistenza sociale è il dovere pubblico di garantire sostegno alle fasce di popolazione più bisognose. In altri termini, sussidi e servizi devono aiutare chi altrimenti, sul mercato, non riuscirebbe a soddisfare le proprie necessità, tra cui quella abitativa, che, secondo la Consulta, “esprime un’istanza primaria della persona umana radicata sul fondamento della dignità”. A tal fine vengono erogate prestazioni, sia verso categorie specifiche (ad esempio gli invalidi), sia verso chi si trovi in uno stato di bisogno.
Ma come si individua lo stato di bisogno? Certo non con requisiti di residenza permanente, spiega ancora una volta la Corte costituzionale. Imporre, come ha fatto la regione guidata da Zaia, la prolungata residenza in Veneto per concorrere all’assegnazione di case popolari equivale a fissare “una soglia rigida che porta a negare l’accesso all’ERP [edilizia residenziale pubblica, ndr] a prescindere da qualsiasi valutazione attinente alla situazione di bisogno o di disagio del richiedente (quali ad esempio condizioni economiche, presenza di disabili o di anziani nel nucleo familiare, numero dei figli)”.
La discriminazione indiretta del requisito di prolungata residenza
Resterebbero così fuori dall’assistenza persone e nuclei familiari che pure versano in stato di bisogno e vivono in contesti svantaggiati, per la sola mancanza di un requisito residenziale regionale. Sia il diritto nazionale, sia quello europeo prevedono però delle regole contro la discriminazione e puniscono, cercando di correggere, non solo la discriminazione diretta, cioè quella che colpisce una persona o un gruppo di persone sulla base di un fattore di diversità (per genere, etnia, nazionalità, religione, orientamento sessuale…), ma anche la discriminazione indiretta.
Questo tipo di discriminazione si verifica quando, attraverso un criterio apparentemente neutro, si pongono le persone di una determinata nazionalità (o genere, religione, etnia…) in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.
È proprio questo il caso della normativa veneta incostituzionale. Il requisito della prolungata residenza esclude indirettamente chi, per qualunque motivo inclusa la precarietà lavorativa (che aggrava, invece che diminuire, lo stato di bisogno), si sia dovuto spostare. Questa imposizione non punisce soltanto gli immigrati europei ed extracomunitari, attraverso una discriminazione indiretta sulla base della nazionalità, ma danneggia anche gli italiani che emigrano da una parte all’altra del paese, in cerca di fortuna, di benessere, di impieghi migliori.
Di fatto, questa discriminazione indiretta viola anche la libertà di circolazione, principio alla base del funzionamento dell’Unione europea, oltre che diritto sancito sul piano nazionale e internazionale: una libertà è infatti calpestata non soltanto da specifici divieti diretti, ma anche dalle discriminazioni che ne ostacolano l’esercizio.
Diritti e doveri: perché il discorso che lega tasse e assistenza non ha senso
Si potrà obiettare che i veneti (come prima di loro lombardi, liguri, marchigiani e valdostani, che di recente hanno visto la bocciatura di analoghe norme regionali incostituzionali) hanno diritto di escludere i forestieri dall’accesso ai servizi locali, perché, dopotutto, questi ultimi non avrebbero contribuito alla loro istituzione e al loro finanziamento. Ma non è così.
Primo. La gestione dell’edilizia residenziale pubblica, così come vari livelli di assistenza sociale, sono sì di competenza regionale, ma la fissazione dei criteri generali di assistenza, oltre che il finanziamento, derivano da una complessa combinazione di diversi livelli integrati. Le case popolari non sono finanziate dall’addizionale regionale Irpef (che comunque è pagata anche da chi sia residente da meno di cinque anni), ma da fondi e stanziamenti locali e regionali, e anche statali, europei e perfino, talvolta, privati.
Secondo. In ogni caso, la relazione tra diritti e doveri non è corrispettiva ma funzionale. I diritti non sono merci, che si pagano e si scambiano in cambio di denaro. Adempiere a un dovere non è il prezzo di un diritto, ma un modo di contribuire al finanziamento pubblico, affinché chiunque possa ricevere quanto necessita per una vita dignitosa. Paghiamo le tasse per la sanità, ma alcuni di noi ricevono cure più costose (e non riteniamo certo siano le persone più fortunate, o che stiano approfittando del denaro pubblico). Finanziamo le scuole, a prescindere che abbiamo o meno figli che le frequentano. Costruiamo strade, ponti, ferrovie anche se magari, individualmente, non li percorreremo mai. L’assistenza non si paga come fosse un servizio di mercato: si riceve se se ne ha bisogno, si finanzia se non se ne ha.
Terzo. L’assistenza a chi ha bisogno non è solo un diritto di chi riceve sostegno, né solo un dovere pubblico, ma è anche un interesse dell’intera collettività: le sacche di disagio, l’esclusione sociale, l’invisibilità dei più poveri sono un rischio per il benessere e la sicurezza di tutta la comunità.
Tra razzismo, risparmio e viltà: escludere chi non ha strumenti di difesa
Chiarito perché la norma che impone almeno cinque anni di residenza in Veneto per poter concorrere all’assegnazione di case popolari sia incostituzionale (in quanto illogica, irragionevole e discriminatoria), è necessario notare come la regione amministrata da Zaia non sia certo l’unica ad aver varato regole palesemente illegittime per l’accesso ai servizi di welfare. Basta leggere questa sentenza della Corte Costituzionale per scoprire che una norma molto simile è stata bocciata anche per Lombardia (sentenza 44 del 2020), Liguria (sentenza 77 del 2023), Marche (sentenza 145 del 2023), e, ancor prima, per l’edilizia popolare in Valle d’Aosta (sentenza 168 del 2014). E possiamo anche attendere altre bocciature nei prossimi mesi: al vaglio della Consulta c’è la legge regionale piemontese sulle case popolari, con lo stesso requisito di prolungata residenza per poter accedere alle graduatorie.
Se allarghiamo lo sguardo all’assistenza sociale e non solo agli alloggi popolari lo scenario di esclusione tramite norme locali o regionali diventa ancor più grave. Come si può scoprire dalla banca dati di ASGI, sono innumerevoli le sentenze che dichiarano illegittimi regolamenti locali che impongono certificazioni e adempimenti aggiuntivi agli stranieri per accedere ai servizi sociali (come nel celebre caso di Lodi, ma non solo) o che impongono il requisito della prolungata residenza o del permesso per lungosoggiornanti, senza i quali non è possibile accedere ai vari bonus previsti dagli enti pubblici.
Si tratta di norme illegittime, e le sentenze dei vari tribunali sono ormai costanti nel dar ragione a chi ricorre contro questi regolamenti discriminatori, eppure gli enti locali continuano a vararne. Il sospetto è che, in un ibrido tra esigenze di risparmio sulla spesa pubblica e tendenze xenofobiche e razziste, certi amministratori impongano requisiti escludenti, confidando che gli emarginati non abbiano la forza di reagire, difendersi, ottenere i propri diritti. La burocrazia diventa strumento ulteriore di discriminazione e, di fronte a un primo diniego, molte persone, che pure avrebbero bisogno (e diritto) di assistenza, rinunciano a richiederla. Si tratta di una strategia politica subdola e con una certa dose di vigliaccheria: dietro un ricorso vinto, spesso grazie all’impegno delle associazioni antidiscriminatorie, ci sono molte altre norme locali e regionali che, pur illegittime, restano vigenti e applicate, escludendo dallo stato sociale proprio coloro che ne avrebbero più bisogno.
Calpestare i diritti è una strategia politica di propaganda
Sullo sfondo c’è poi la capitalizzazione elettorale, che arriva al punto di calpestare tanto i diritti quanto il funzionamento della democrazia. Appresa la notizia della bocciatura per incostituzionalità, infatti, Zaia ha dichiarato di non condividere la sentenza e ha promesso di modificare la norma per privilegiare comunque i residenti da più tempo, assegnando punteggi più alti nelle graduatorie.
Ma una sentenza simile non è un’opinione che Zaia possa ignorare. O, meglio, può farlo, come dichiara di voler fare con uno sprezzo delle regole preoccupante in un paese democratico. La sua scelta propagandistica continuerà però a costare ai contribuenti veneti e italiani altro denaro pubblico, e le sentenze che arriveranno sulle nuove versioni delle stesse discriminazioni finiranno per ribadire gli stessi princìpi. Nel frattempo, però, la retorica passa, la propaganda fa presa, gli esclusi restano esclusi, emarginati da una società a cui appartengono ma che non li vuole, aumentando il disagio anche ai danni della comunità.