Mettiamo le mani avanti: le automobili elettriche non sono la panacea contro il cambiamento climatico, per mille ragioni. Tre, a titolo di esempio: perché produrle e distribuirle nel mondo produce gas serra; perché l’energia elettrica con cui sono alimentate proviene sovente da fonti fossili; perché l’asfalto su cui corrono le automobili elettriche è anch’esso responsabile del riscaldamento globale.
Tutto vero. Però è altrettanto vero che se si vuole provare a cambiare le cose e a ridurre le emissioni tanto quanto sia necessario farlo per evitare di raggiungere il punto di non ritorno dei 2 gradi in più e di quanto abbiamo promesso di farlo – ossia azzerarle entro il 2050, nero su bianco – da qualche parte bisognerà pur partire. E in Europa non si può non partire dalle automobili a combustibili fossili, responsabili del 30% delle emissioni totali di gas clima alteranti del Vecchio Continente, e di almeno l’1% di tutta la CO2 prodotta nel mondo. Che sembra poco – e infatti è il dato preferito dei fossilisti – ma se ci pensate un secondo in più, è tantissimo.
In un mondo normale, in un contesto politico normale, la direttiva europea che impone lo stop alla vendita delle auto a combustibili fossili entro il 2035 dovrebbe essere salutata, se non con applausi e bandiere, almeno con la viva soddisfazione che l’Unione Europea stia davvero facendo qualcosa per essere consequenziale alle sue promesse. O, al più, con una malcelata punta di fastidio per la lentezza pachidermica con cui si sta muovendo per affrontare un’emergenza che mette a rischio la sopravvivenza dell’uomo su questo pianeta.
E invece, oggi, sui giornali, si leggono solo preoccupazioni e prese di distanze. C’è chi come il ministro dell’infrastrutture Matteo Salvini, che da quando è arrivato al governo parla solo di ponti, tunnel e lingue d’asfalto per automobili a benzina, manco fossimo nel 1950, giudica questo provvedimento “una follia”. E chi, più pacatamente ma fino a un certo punto, parla di distruzione dell’industria automobilistica europea, di migliaia di posti di lavoro bruciati, di genuflessione all’egemonia industriale cinese.
La tentazione di rubricare questi commenti a un momento di follia collettiva sarebbe forte, e basterebbe ripercorrere gli ultimi dodici mesi funestati da caldo record, incendi, siccità, eventi climatici estremi, ghiacciai che si staccano, primavere senza pioggia e inverni senza nevi, per rendersene conto. Così come basterebbe chiedersi dove fossero questi strenui difensori dell’industria europea quando beatificavano la globalizzazione, o quando venivano erosi i diritti dei lavoratori pezzo per pezzo, nel nome della competitività globale.
Il problema, però, è che questa follia collettiva è a tutt’oggi espressione in purezza della maggioranza che governa questo Paese, che si sentono minacciati più dalla lotta al cambiamento climatico che dal cambiamento climatico stesso. Una miopia selettiva, questa, che fa della lotta alla lotta al cambiamento climatico – no, non è un refuso – uno dei principali punti dell’agenda politica di chi sta al governo, di chi lo sostiene e da chi lo foraggia, lobby del petrolio, del gas e dell’auto in primis.
Oggi combattono la guerra alle auto elettriche. Domani combatteranno per gli allevamenti intensivi e l’industria della carne. Dopodomani combatteranno contro le case a emissioni zero. Il tutto per affermare il sacro principio alla conservazione dell’esistente, nel nome dell’idea che il cambiamento climatico sia come il tirannosauro di Jurassic Park, che se non ti muovi non ti vede.
Un’idea, questa, che evidentemente agli elettori piace, perché “lo dimo e non lo famo” è sempre un'ottima strategia per pulirsi la coscienza senza affrontare i problemi. Perché permette loro di far finta che vada tutto bene, che l’emergenza non sia tale. Perché ci assolve da ogni peccato, ché tanto la colpa è, al solito, degli altri, cinesi, indiani, chiunque osi inquinare oggi per produrre per noi a basso costo, dopo che noi abbiamo appestato il pianeta indisturbati per 200 anni. Basta che lo sappiate, però: che il giorno in cui davvero sarà troppo tardi non ci sarà nessuno con cui prendersela. A eccezione degli occhi che vi guardano dallo specchietto retrovisore, s’intende.