Non è molto complicato provare a mettere insieme le ragioni che hanno portato la grande maggioranza degli aventi diritto a disertare le urne delle elezioni regionali in Emilia Romagna e Calabria. Cause che, del resto, non sfuggono nemmeno a chi ora si scandalizza dei dati che arrivano dal Viminale ed elabora strumentali letture del voto e paradossali scenari post elezione. Il punto è che basterebbe fermarsi a riflettere e provare a dare una risposta alla domanda più semplice di tutte: perché un elettore si sarebbe dovuto recare alle urne?
La prima, elementare risposta, farebbe riferimento al senso civico, al diritto / dovere di partecipare alla vita politica, alla tradizione italiana e alla peculiarità di alcune regioni. Tutte questioni sacrosante, ci mancherebbe. Ma la sfiducia nelle istituzioni, la crisi di rappresentatività dei partiti, l’affievolirsi del senso stesso di comunità, il disimpegno, l’indifferenza sono ormai costanti della società italiana e non sono certo una “novità” degli ultimi mesi (e peraltro rimandano ad una tendenza marcata anche nelle democrazie occidentali). Non c’è una valutazione di merito nell’elencare tali fattori, ma una semplice constatazione: gli italiani sono sempre più stanchi di questa politica, sempre più sfiduciati e disillusi sulla reale capacità dei partiti di incidere nei processi che determinano le condizioni materiali di vita, sempre meno convinti della possibilità di "contare" in maniera tangibile, evidente, nella gestione della cosa pubblica. È certo la crisi di un modello di rappresentanza, ma è anche la testimonianza del fallimento del progetto della delega (per incapacità dei rappresentanti territoriali, per la degenerazione dei sistemi clientelari, per le schifezze dello spoil system) e infine la conferma ulteriore dell'estrema volatilità del consenso (il Pd del capo del Governo perde oltre 300mila voti in meno di sei mesi, per giunta in una delle sue storiche roccaforti).
A questa tendenza in atto da tempo si sono poi aggiunti alcuni fattori contingenti che hanno determinato il tracollo della partecipazione alle urne e depotenziato la chiara vittoria del centrosinistra (lo stesso Bonaccini, con grande onestà intellettuale, ha spiegato: “Inutile negarlo, non si può essere soddisfatti di una partecipazione così bassa”). In primo luogo la fine anticipata delle due consiliature, minate da scandali, inchieste, dimissioni, ha acuito il senso di insoddisfazione e sfiducia dei cittadini, che hanno preferito non avallare col voto un futuro che si immagina identico al precedente. Insomma, in poche parole, si è sedimentata la percezione che votare non cambi le cose. In nessun caso.
Anche perché, altro fattore chiave, la consultazione sembrava avere un esito scontato tanto in Calabria quanto in Emilia Romagna. In quest’ultimo caso, si dirà, non si tratta di una novità (e la partecipazione al voto è sempre stata di tutto rispetto), ma bisogna considerare che in passato il voto delle regionali aveva sempre un “valore ulteriore”, o per i riflessi a livello nazionale, o (a sinistra) come segno di appartenenza ad una comunità e premio per una amministrazione che si intendeva virtuosa (e le ragioni opposte portavano alle urne anche gli elettori avversi al centrosinistra). Ora invece è subentrata proprio la percezione dell’ineluttabilità della vittoria di Bonaccini ed una certa “rassegnazione” all’assenza di una alternativa. In tal senso una riflessione andrebbe fatta anche nel centrodestra, poiché al di là dell’exploit leghista i dati parlano chiaro: Fabbri perde 7 punti percentuali rispetto alla Bernini (nel 2010), per di più dopo che la consiliatura precedente era “caduta” per i riflessi di una azione giudiziaria e naufragata in mezzo allo scandalo rimborsi. Questione simile in Calabria: qual era la “vera” alternativa al candidato del centrosinistra? Quali erano le ragioni per un voto di opinione, in un senso o nell’altro?
Ma c’è ancora dell’altro. Perché in un momento in cui lo scontro politico si è polarizzato intorno alla figura del leader carismatico, è evidente che c’è sempre meno spazio per l’idea collegiale e plurale di partito (tradizionale o meno, conta poco). E se il leader si eclissa o preferisce non impegnarsi direttamente (vero Grillo? vero Renzi? vero Berlusconi?) è chiaro che diminuisce la possibilità di attrarre gli elettori alle urne (voto “passivo”, probabilmente). Che sia l’effetto della disintermediazione o la continuazione del processo di trasformazione della politica italiana, il senso non cambia: se il leader carismatico (o un suo “facente funzioni” di eguale carisma a livello territoriale) non si muove, il “suo” elettorato resta a casa.
Così, come nota la Gualmini su La Stampa, “il circuito si è autoalimentato; gli stessi avversari, dividendosi o ritraendosi, hanno tolto mordente alla contesa, fino a farla scomparire dai radar dei media e di una consistente quota di elettori”. E alle urne si sono presentati o sempre i soliti (sarà interessante leggere i dati disaggregati, ma la nostra sensazione è che sia stata ancora determinante una quota dell’elettorato moderato “conquistato” da Renzi nella campagna delle Europee) oppure gli irriducibili del “messaggio di protesta”, che hanno votato Lega e premiato Salvini, l’unico che ci ha messo faccia, cuore e testa.
Insomma, forse ha davvero ragione Prodi quando insiste nel sostenere che è la politica ad aver preparato il terreno all’astensionismo e non ha molto senso stupirsene adesso (“Mio caro, come ti fai il letto così dormi”). Ma la sensazione è che si tratti di un processo difficilmente reversibile, soprattutto perché c’è la convinzione (legittima, fondata) che non sia nelle stanze della politica (e men che meno delle istituzioni locali) che si decidano i destini individuali delle persone. Che poi, per inciso, sembra essere l’unica cosa che conta in una società in cui gli individui (con rare eccezioni) tendono a riconoscersi sempre meno come “comunità” e sempre più come singolarità: perché, che piaccia o meno, a cambiare cuore ed anima delle persone è stata l’economia (e la faccia truce della speculazione finanziaria), non la politica. E questo lo diceva la Thatcher, ahinoi.