La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile il referendum sull’eutanasia legale, come si legge da una nota della Consulta in attesa del deposito della sentenza. Il quesito referendario, presentato dall’Associazione Luca Coscioni con 1 milione e 200mila firme, avrebbe previsto l’abrogazione parziale dell’articolo 579 del codice penale, che punisce l’omicidio del consenziente: nelle intenzioni dei proponenti (e dei firmatari), la pena per il reato (da 6 a 15 anni di reclusione) si sarebbe applicata solo in caso di omicidio di minori, persone con infermità di mente o qualora il consenso fosse viziato o estorto.
Raramente si può discutere di una sentenza prima del suo deposito, ma è questo il caso. Il tema infatti ricalca quanto la Consulta ha già avuto modo di argomentare negli ultimi quattro anni, sul caso Cappato-Dj Fabo, con l’eccezione di legittimità costituzionale sollevata sul reato di aiuto al suicidio (art. 580 c.p.). Ripercorriamo i ragionamenti su quella vicenda, per capire perché la decisione sull’inammissibilità del quesito referendario era prevedibile e, più in generale, perché l’appello alla Consulta, pur spesso necessario, non è sufficiente a garantire libertà e diritti.
Il monito della Consulta al Parlamento sul caso Dj Fabo
La Corte Costituzionale aveva emesso una pronuncia senza precedenti nel settembre 2018, decidendo di non decidere per un anno, sospendendo il procedimento per richiamare il Parlamento al suo ruolo legiferatore. Riconoscendo il diritto alla vita e il diritto all’autodeterminazione, la Consulta aveva infatti sottolineato il vuoto normativo sulla questione, in particolare criticando la scelta del legislatore di prevedere un solo tipo di procedura per il fine vita, ossia il rifiuto o l’interruzione di cure, senza la possibilità di ottenere altro che farmaci palliativi, dunque imponendo una morte lunga, invece di garantire l’autodeterminazione di chi intenda porre fine alle proprie sofferenze in maniera attiva e celere.
In quel frangente, la Corte aveva tuttavia precisato come un intervento abrogativo, ossia la dichiarazione di incostituzionalità del reato di aiuto al suicidio, sarebbe stato inadeguato e, anzi, pericoloso soprattutto per le persone più vulnerabili.
Una simile soluzione lascerebbe, infatti, del tutto priva di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in tali condizioni, in un ambito ad altissima sensibilità etico-sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi.
In assenza di una specifica disciplina della materia, più in particolare, qualsiasi soggetto – anche non esercente una professione sanitaria, potrebbe lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento assistenza al suicidio a pazienti che lo desiderino, senza alcun controllo ex ante sull’effettiva sussistenza, ad esempio, della loro capacità di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta da essi espressa e dell’irreversibilità della patologia da cui sono affetti.
La decisione della Corte sull’aiuto al suicidio
La sospensione per un anno del procedimento rispondeva quindi alla necessità di affrontare la questione del fine vita con un approccio complesso, che tenesse conto dei problemi bioetici in discussione. Questo approccio non poteva essere garantito da un organo giurisprudenziale attraverso una abrogazione, ma solo con una nuova disciplina, che prevedesse diritti, prerogative, procedure, obblighi, tutele. La Consulta sospese quindi il giudizio, per un anno, dopo il quale valutare "l'eventuale sopravvenienza di una legge che regoli la materia in conformità alle segnalate esigenze di tutela", ossia richiamando il Parlamento al suo ruolo.
Il Parlamento, però, ignorò la questione (e continua a farlo).
Scaduto il termine, la Corte Costituzionale constatò l’assenza di intervento parlamentare e decise sull’aiuto al suicidio, prevedendo che il reato non fosse punibile qualora posto in atto in presenza dei requisiti previsti dalla legge sul testamento biologico, ossia verso persone affette da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche intollerabili, tenuta in vita con trattamento di sostegno vitale ma capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Tramite questa legge, si riconosce infatti alle persone capaci di agire il diritto di rifiutare o interrompere qualunque trattamento sanitario, anche se salvavita, dopo aver ricevuto informazioni sulle conseguenze della decisione e con l'assistenza di servizi di assistenza psicologica. Il paziente, fino all’ultimo momento di coscienza, può modificare la volontà circa l’interruzione dei trattamenti e gli devono essere comunque garantite cure palliative, compresa la sedazione profonda. Il medico ha il dovere di rispettare la volontà del paziente ed è quindi ovviamente esente dalle responsabilità civili e penali.
Si tratta comunque di una decisione insufficiente, per la natura dell’organo che la emise. La giurisprudenza infatti si limita all’applicazione delle leggi e l’interpretazione, più o meno creativa, delle norme resta comunque limitata a casi concreti, precisi, senza avere la natura generale e astratta delle leggi. Era questo il motivo per cui il giudizio era stato sospeso, nella speranza che il Parlamento legiferasse, che la politica non abdicasse al suo ruolo.
L’inammissibilità del quesito referendario sull’omicidio del consenziente
Con la parziale modifica del reato di aiuto al suicidio e di fronte all’inazione parlamentare sul tema, l’Associazione Luca Coscioni propone una raccolta firme sull’eutanasia legale, attraverso un referendum per l’abrogazione parziale dell’articolo 579 del codice penale, relativo all’omicidio del consenziente. Un milione e duecentomila persone firmano per presentare alla Consulta il quesito referendario, che è stato però dichiarato inammissibile.
In attesa del deposito della sentenza, è possibile ipotizzare con una certa sicurezza che il rigetto dipenda proprio da quelle argomentazioni che la Consulta ha espresso nel settembre 2018 e ribadito l’anno successivo, sul reato di aiuto al suicidio.
La vigenza nell’ordinamento di un reato simile limita il diritto all’autodeterminazione, ma la sua abrogazione pura e semplice legittima situazioni lesive di altri diritti. Eutanasia, dal greco, significa buona morte: per definizione, insomma, ci si riferisce alla fine di una vita per limitare le sofferenze e senza l’inflizione di ulteriore dolore.
Concentràti su questo significato di eutanasia, perdiamo di vista che il quesito referendario non riguarda (né potrebbe riguardare) una disciplina sul fine vita libero e dignitoso, ma si limita a richiedere l’abrogazione di un reato, cioè a non prevedere la pena per chi materialmente uccida qualcun altro, purché maggiorenne, non infermo di mente e consenziente. Non è però prevista alcuna tutela per chi è consenziente: né la garanzia di un ambiente sereno, né la possibilità di modificare le sue intenzioni, né la somministrazione di cure palliative, né l’assistenza in un momento estremamente delicato. Perché si sia "liberi fino alla fine" non basta elemosinare d’essere uccisi, garantendo l’assenza di conseguenze penali per chi esegua l’atto, è necessario pretendere che chiunque richieda il trattamento di fine vita lo ottenga in maniera dignitosa, rispettosa delle volontà, serena nonostante la drammaticità della situazione. Non è qualcosa che si possa garantire con l’abrogazione di un reato, che essa avvenga tramite una sentenza della Corte Costituzionale o attraverso un referendum popolare.
L’eutanasia legale si può garantire solo con la legge
La questione politica resta: il gran numero di firme raccolte, più del doppio rispetto a quanto necessario per la richiesta di indizione del referendum, non può certo passare sotto silenzio. È il segno di una richiesta forte, consapevole, della cittadinanza, che deve essere raccolta nelle sedi istituzionali, in senso costruttivo: non ci sono leggi da abrogare, ma discipline da approntare.
Salvo rari casi, infatti, le soluzioni abrogative non possono che essere insufficienti, i risultati sulla tutela delle persone insoddisfacenti. Vale per le dichiarazioni di incostituzionalità di leggi (il decreto Salvini, la legge Fornero, il Jobs act, per citare solo gli ultimi), che cercano di eliminare vizi ma che non sono paragonabili alle riforme che il Parlamento dovrebbe mettere in atto per correggere i propri errori; vale per l’eutanasia legale, che per la complessità dei diritti in gioco non può limitarsi a una depenalizzazione, ma deve porre al centro la persona e il suo diritto di scelta, che viene frustrato dall’assenza di leggi in materia ma anche dalla semplicistica abrogazione di un reato, senza la previsione di tutele e garanzie per il paziente.
Questa vicenda tuttavia non riguarda questioni di bioetica, ma denuncia ancora una volta l’inadeguatezza di una classe politica incapace di cogliere il segno dei tempi e, prima ancora, di garantire diritti al di là dei propri interessi. Il quadro che emerge è sconfortante e la notizia grave di questi giorni non è la prevedibile, e a suo modo corretta, dichiarazione di inammissibilità di un quesito sull’omicidio del consenziente, ma il fatto che in quattro anni (per tacere dei precedenti) il Parlamento non ha previsto una pur minima forma di eutanasia legale, approfondendo ancor più il solco tra la politica istituzionale e il popolo che essa è chiamata a rappresentare.