Alla conferenza stampa di fine anno, Giorgia Meloni, per giustificare la cosiddetta flat tax per gli autonomi, ha confrontato la situazione di dipendenti e partite Iva. Quelle dichiarazioni, oltre che confuse, ripropongono però una contrapposizione tra lavoratori che non ha senso.
Partire dai dati, ma non farseli bastare
Nonostante abbia fatto riferimento a non meglio identificati "studi autorevoli", la presidente del Consiglio nelle sue dichiarazioni ha ignorato i dati Istat, usciti diversi giorni prima. L'Istituto di statistica, oltre a rivelare come l’aliquota media per il reddito da lavoro autonomo sia più bassa di quella imposta ai dipendenti, offre un dato piuttosto interessante sul rapporto tra costo del lavoro e reddito.
Al contrario di quanto sostenuto da Meloni, infatti, il peso fiscale e contributivo sul lavoro subordinato risulta in percentuale superiore rispetto a quanto imposto al lavoro autonomo. La retribuzione netta a disposizione del lavoratore dipendente "costituisce poco più della metà del totale del costo del lavoro", più precisamente il 54,5%, mentre il reddito netto a disposizione del lavoratore autonomo "raggiunge il 68,5% del totale".
Questo significa che gli autonomi stanno meglio dei lavoratori subordinati? No. Le situazioni sono differenti e complesse, a tratti nemmeno paragonabili, sia rispetto alle tasse, sia per il rapporto tra il lavoratore e la comunità, sia essa l'impresa o lo Stato.
Dal punto di vista fiscale, ad esempio, il datore di lavoro rappresenta un sostituto d’imposta per i dipendenti: questo significa che, anche se è il lavoratore a subire il prelievo fiscale, gli adempimenti tributari avvengono per il tramite dell’impresa. Il lavoratore autonomo è invece autonomo anche rispetto agli adempimenti tributari e deve quindi confrontarsi da solo con il fisco. Ci si trova quindi di fronte a un distacco tra fatti e percezioni: sono i dipendenti a pagare più tasse, ma il prelievo avviene alla fonte, per mezzo del datore di lavoro sostituto di imposta, mentre per gli autonomi le imposte gravano sul denaro lordo dei ricavi e quindi, pur essendo l'aliquota media più bassa (al 15%), si ha l'impressione di un prelievo più oneroso.
Questa solitudine è una caratteristica tipica del lavoro autonomo, un elemento intrinseco di questo tipo di attività economica, con vantaggi e svantaggi. Chi lavora in autonomia non è obbligato a rispettare orari, a seguire gli ordini, a organizzare la propria vita privata e familiare in base alle esigenze dell'impresa. Di contro, però, non ha alleati: un lavoratore autonomo è in competizione con chiunque, deve riuscire a convincere i propri committenti di essere il professionista con il miglior rapporto qualità-prezzo. E le scarse tutele per le partite Iva derivano anche da questa realtà.
Le tutele si conquistano insieme (e si perdono divisi)
Storicamente sono infatti i lavoratori dipendenti ad avere maggiori tutele, ad esempio il diritto (irrinunciabile) alle ferie e ai riposi settimanali, o i congedi familiari e le indennità per malattia o infortunio. La libertà dell'autonomo, infatti, ha come rischio l'abuso: non essere obbligati a rispettare orari, dovendo garantire risultati per essere pagati, può condurre al fenomeno dell'autosfruttamento e, più in generale, all'incapacità (o all'impossibilità) di avere dei genuini momenti di riposo dal lavoro.
Le tutele per il lavoro subordinato, però, non sono state un regalo, una concessione elargita per simpatia o privilegio: rappresentano conquiste derivate da pressioni politiche e lotte sindacali, possibili grazie alla coalizzazione tra lavoratori, una coalizzazione molto più difficile per le partite Iva.
Ma, sul finire del secolo scorso, la situazione inizia a cambiare, raggiungendo il culmine tra il 2012 e il 2015, anche sulla base della retorica del conflitto tra insider e outsider, declinato in chiave tanto generazionale quanto contrattuale: attraverso la contrapposizione tra giovani precari e lavoratori stabili più adulti, così come tra dipendenti e (false) partite Iva, diverse conquiste sono state ridimensionate, e a farne le spese sono soprattutto i lavoratori dipendenti. Dopo l’introduzione di forme di lavoro atipico e la crescita di fenomeni di esternalizzazione del lavoro (appalto, distacco, somministrazione…), si è infatti arrivati anche a ridurre le tutele contro il licenziamento ingiustificato. E il rischio di perdere il lavoro, ottenendo al massimo un indennizzo economico (sempre che si decida di affrontare una causa giudiziaria), può spingere le persone a non pretendere diritti e tutele che pure spettano loro, ad accettare paghe basse e condizioni di lavoro ai limiti dello sfruttamento.
Lavoro povero e precario: senza sicurezza sociale non c'è benessere
Le paghe basse però non sono un'esclusiva dei dipendenti, anzi. Secondo i citati dati Istat, il reddito netto medio ammonta a 17.335 euro per i dipendenti e a 17.046 euro per gli autonomi. Questo significa che, pur essendo tassati meno, i lavoratori con partita Iva risultano in media più poveri rispetto ai subordinati. E questo è un problema tanto fiscale quanto sociale.
La soluzione proposta dalle politiche degli ultimi anni perpetua l'individualismo degli autonomi, la loro solitudine rispetto non solo alle organizzazioni economiche, ma anche alla comunità sociale. Invece di garantire diritti e tutele, con imposte progressive per tutti, si allarga via via il regime forfettario, e questo non è altro che un circolo vizioso: offrendo meno servizi pubblici si concede una minor tassazione, ma con minor tassazione ci sono scarsi margini per maggiori (e migliori) interventi pubblici.
E, nonostante il minor prelievo fiscale, il reddito degli autonomi è comunque, seppur di poco, inferiore a quello dei lavoratori dipendenti, le cui tutele sono state via via erose. Precariato e lavoro povero sono due facce della stessa medaglia, e sono un problema per tutti: ridurre le diseguaglianze conviene a tutti, anche ai più ricchi, a cui è richiesto (o dovrebbe essere richiesto) un maggior sacrificio fiscale.
Sul piano ideale e ideologico, la rimozione degli ostacoli socio-economici che limitano l’uguaglianza tra i cittadini è un imperativo etico, un obiettivo di giustizia sociale, e tanto dovrebbe bastare per indurci a perseguirlo. Nella società post-ideologica, però, è spesso la convenienza a guidare idee e azioni, quindi è il caso di osservare come diseguaglianze e povertà danneggino anche i privilegiati.
Per capire perché, semplificando questioni complesse in poche parole, dobbiamo guardare alla propensione marginale al consumo, ossia al rapporto tra l’aumento del consumo e l’aumento del reddito. La propensione al consumo tende a essere maggiore tra i lavoratori (piuttosto che tra i percettori di reddito da capitale, quindi ad esempio chi abbia delle rendite) e questo implica che, al diminuire degli stipendi, diminuisce la liquidità nelle famiglie e il loro reddito disponibile. Questo rischia di innescare una spirale recessiva, che si inserisce nel circolo vizioso tra scarsi consumi, mancanza di domanda, depressione della produzione, calo dell'occupazione. Questa visione è aggravata dalla precarietà: se i lavoratori hanno un contratto a termine, o temono licenziamenti, o devono gestirsi gli affari pur avendo ricavi medio-bassi, non potranno programmare la propria vita e nemmeno le proprie finanze, facendo venir meno gli investimenti privati, in un paese in cui il risparmio delle famiglie ha storicamente rappresentato per anni, attraverso l'acquisto di Bot e Btp, uno strumento di spesa pubblica. E attraverso la spesa pubblica si garantiscono servizi per tutti: la scuola, i trasporti, la sanità, l'amministrazione, gli atti concreti per rimuovere le diseguaglianze, economiche e sociali. E, dopo una pandemia, non dovrebbe più esserci bisogno di spiegare perché questi servizi pubblici di qualità siano necessari per il benessere generale, non solo dei poveri, non solo dei ricchi.