Cittadinanza, perché la Consulta boccia l’obbligo dell’esame di italiano per tutti gli stranieri

L'obbligo di conoscere la lingua italiana per ottenere la cittadinanza non può valere per tutti allo stesso modo, soprattutto quando a richiederla sono persone che si trovano in condizioni di oggettiva impossibilità di apprendimento. È questo il principio affermato dalla Corte Costituzionale, che con la sentenza n. 25, depositata oggi, 7 marzo, ha dichiarato illegittima la norma che impone la prova della conoscenza della lingua italiana senza prevedere eccezioni per chi è gravemente impedito da disabilità, patologie o età avanzata. La pronuncia interviene su una delle regole introdotte con il decreto sicurezza del 2018, che ha reso obbligatorio per tutti gli stranieri dimostrare una conoscenza della lingua italiana di livello B1, cioè intermedio, per poter ottenere la cittadinanza per naturalizzazione o per matrimonio. Una misura che nelle intenzioni del legislatore doveva garantire una maggiore integrazione, ma che di fatto ha finito per trasformarsi in una barriera per alcune categorie di persone vulnerabili.
La Corte ha stabilito comunque che l'imposizione generalizzata di questa prova viola proprio i principi costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza, perché non tiene conto delle condizioni individuali di chi si trova in una situazione di oggettiva impossibilità di apprendimento. Il diritto alla cittadinanza, sottolinea la Consulta, non può essere infatti condizionato a un requisito che alcune persone non possono soddisfare per motivi di salute o di età, indipendentemente dalla loro volontà o dal grado di integrazione nella società italiana.
Una discriminazione indiretta
Al centro della decisione c'è il riconoscimento di una discriminazione indiretta nei confronti di chi, a causa di disabilità fisiche, cognitive o di patologie invalidanti, è oggettivamente impedito ad apprendere una nuova lingua. La Consulta ha infatti chiarito che imporre indistintamente lo stesso requisito a tutti i richiedenti produce un effetto discriminatorio, perché penalizza chi si trova in una condizione di vulnerabilità, rendendo di fatto impossibile l'accesso alla cittadinanza. Non solo. La sentenza si spinge oltre, riconoscendo che la norma colpisce anche chi, pur non essendo disabile, si trova in condizioni di grave fragilità legate all'età avanzata, specialmente quando si tratta di persone che vivono in Italia da anni e sono già parte integrante della comunità, ma che non hanno mai avuto, per altre ragioni, la possibilità di apprendere la lingua.
Il principio di uguaglianza
La decisione della Corte si fonda sull'articolo 3 della Costituzione, che garantisce l'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge. Secondo i giudici, la norma sulla cittadinanza vìola questo principio in due modi: da un lato, perché tratta in modo uguale situazioni profondamente diverse (uguaglianza formale); dall'altro, perché impone un ostacolo aggiuntivo a chi si trova già in una condizione di svantaggio (uguaglianza sostanziale). "La disciplina uniforme dettata dall'articolo 9.1", scrive la Corte, "frappone, anziché rimuovere, un ostacolo all'acquisto dello status di cittadino per tale specifica categoria di persone vulnerabili".
Nessuno è tenuto all'impossibile
Uno dei passaggi chiave della sentenza richiama il principio giuridico "ad impossibilia nemo tenetur", cioè: nessuno può essere obbligato a fare ciò che è impossibile. Pretendere, insomma, la conoscenza di una lingua da chi non può apprenderla è una condizione irrealizzabile, che non tiene conto della realtà delle persone coinvolte. La Consulta ha dunque stabilito che chi sia affetto da gravi limitazioni alla capacità di apprendimento, documentate attraverso certificazione medica rilasciata dalla sanità pubblica, deve essere esonerato dall'obbligo di sostenere la prova linguistica per ottenere la cittadinanza.
Verso una nuova disciplina
La sentenza apre ora la strada a una possibile modifica della normativa, che dovrà introdurre deroghe esplicite per le persone con disabilità o in condizioni di fragilità, garantendo così un accesso più equo e giusto alla cittadinanza italiana. Si tratta di una pronuncia che riaffermerebbe un principio fondamentale: nessuna regola burocratica può prevalere sulla tutela dei diritti fondamentali, soprattutto quando si tratta delle persone oggi più vulnerabili della società.