L'Italia non è più un grande paese. Non lo è più da almeno vent'anni. L'Italia non è più un grande paese da quando il 45% dei suoi giovani non trova lavoro. Non è più un grande paese da quando siamo diventati penultimi – tra i paesi industrializzati – per investimenti nel campo dell'istruzione. Non siamo più un grande paese perché un grande paese non lascia che quasi il 40% della popolazione sia illetterata – ovvero analfabeta o al massimo con la quinta elementare -.
Un grande paese non è terz'ultimo per numero di laureati e numero di adulti dotati di educazione adeguata. Un grande paese non è quint'ultimo per numero di persone che accedono ad internet e non è tra gli ultimi per investimenti in ricerca e sviluppo.
C'è un solo parametro nel quale primeggiamo: il numero di giovani che non va più a scuola e/o cerca lavoro.
Non siamo più un grande paese perché un grande paese partirebbe da qui. Un grande paese rimetterebbe giovani, scuola e lavoro al centro della propria rinascita.
Eppure c'è stato un tempo in cui eravamo molto meglio di quello che siamo ora. C'è stato un tempo in cui la Rai – per chi non aveva avuto la fortuna di andare a scuola – pensava a programmi come “Non è mai troppo tardi”. In cui il patto sociale tra lavoratori e industriali non era fatto di "sottrazioni" ma di aggiunte. C'è stato un tempo in cui il mondo sognava in italiano. Anni in cui Cinecittà era Hollywood e viceversa. Anni in cui c'erano Olivetti, Mattei, Broglio, Ippolito, Natta, Buzzati Traverso e l'industria italiana era molto di più di imprenditori in grado solo di vendere una suoneria per cellulare o aggregare siti sotto uno stesso marchio.
Era l'epoca in cui l'Italia vinceva 10 nobel in 29 anni (a fronte di due negli ultimi 15).
Non siamo più quell'Italia perché abbiamo rotto il patto sociale tra imprenditori e lavoratori, con i primi che hanno cominciato ad avere sempre meno fiducia nei propri dipendenti – grazie a dei contratti che li hanno trasformati in una merce intercambiabile e non in un valore per l'azienda – e questi ultimi che senza quella fiducia – e quel senso di appartenenza – hanno iniziato a pensare solo a come ottenere il massimo a fronte di uno sforzo inferiore. Dov'è la fiducia che intercorreva tra Mattei e gli operai dell'Eni? Dov'è il sogno di una sede Olivetti a misura di dipendente? Per questo non siamo più un grande paese perché abbiamo dimenticato che si vive per sognare (e creare) un mondo migliore.
Non siamo più quell'Italia perché non investiamo sull'istruzione e lasciamo che i nostri cervelli fuggano all'estero.
Non siamo più quell'Italia perché lasciamo che la parte migliore del nostro paese vada via.
Non siamo più quell'Italia perché abbiamo smesso di sognare un paese migliore.
Eppure potremmo tornare ad esserlo. Potremmo tornare ad essere un grande paese se tornassimo a investire nell'istruzione. Se rimettessimo al centro del dibattito dei contratti che trasformino l'anzianità in un'azienda in valore. Se ricucissimo il patto sociale tra imprenditori e lavoratori affinché entrambi capiscano che aziende migliori nascono sulle basi di rapporti di fiducia e non sul terrore di essere licenziati. Che è sulla cultura – e non sulla cultura del terrore – che le società (con la s minuscola e maiuscola) diventano società migliori.
Potremmo tornale a esserlo se investissimo sulla nostra migliore gioventù, quella che ci sta sfuggendo tra le dita come milioni di grani di sabbia. Quella che è molto di più di un selfie, che merita rispetto e non slogan. Quella gioventù che necessita di scuole migliori e università migliori. Che rinnega il baronato accademico che altro non è che un mafia a cui diamo un differente nome.
Quella gioventù che è stanca di doversi piegare alla logica dell'amicizia anche solo per un posto di cameriere. Quella gioventù che chiede solo, invano, di essere valutata in maniera meritocratica e non parentocratica.
Potremmo tornare a essere un grande paese se la smettessimo di nascondere le nostre reali condizioni, ieri come oggi. Perché l'idea di un élite che deve tutelare il "popolo bue" dalla realtà brutta e cattiva è il dramma che ci ha condotto fino qui. Gli italiani conoscono l'orrore della realtà molto di più di chi li governa.
Potremmo tornare ad esserlo se capissimo e trasmettessimo ai ragazzi il valore del nostro patrimonio ambientale. Se tutelassimo e trasmettessimo ai ragazzi il nostro patrimonio culturale (al fine di non rimanere poi sconvolti se dei ragazzi di vent'anni non conoscono chi sia Eduardo). Perché quel patrimonio culturale, prima, era un sistema culturale. Oggi non è altro che un insieme di monadi intorno le quali si costruiscono piccole corti.
Non siamo più un grande paese ma potremmo tornare ad esserlo.