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Perché in Italia si va in pensione troppo presto e come mai è un problema: il rapporto Inps

In Italia si lascia il lavoro in media a 64,2 anni, nonostante la legge Fornero abbia fissato il limite minimo a 67. Per di più, gli assegni sono piuttosto “generosi” rispetto agli ultimi stipendi ricevuti. Questi sono alcuni dei problemi – oltre alla situazione di giovani e donne – che rischiano di portare instabilità nel sistema pensionistico italiano, secondo il rapporto annuale dell’Inps.
A cura di Luca Pons
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In Italia, in media si va in pensione a 64,2 anni di età, nonostante la legge in vigore – la riforma Fornero – fissi il limite a 67 anni. Questo perché ci sono "numerosi canali di uscita anticipata", e anche se la situazione sta cambiando negli ultimi anni (nel 2012 la media era di 62,1 anni), l'età "relativamente bassa" a cui si lascia il lavoro è uno dei motivi che spiega "l'elevato livello di spesa per pensioni". A indicarlo è il rapporto annuale dell'Inps pubblicato oggi.

L'altra questione spinosa è "la generosità del sistema". Ovvero, le pensioni sono tra le più alte in Europa in proporzione all'ultimo stipendio ricevuto prima di lasciare il lavoro. Ma i problemi più in generale si pongono anche per i giovani – che senza un lavoro regolare non possono contribuire alle pensioni di oggi né garantirsi un assegno decente per il futuro – e per le donne, che ricevono pensioni più basse anche perché spesso incontrano più difficoltà sul lavoro se decidono di fare un figlio.

I possibili "squilibri" nel sistema pensionistico

Come detto, le uscite anticipate abbassano l'età di pensionamento e gli assegni risultano piuttosto alti rispetto agli stipendi ricevuti. Questi due elementi rischiano di mettere in difficoltà il sistema pensionistico in futuro. Le previsioni sull'andamento della popolazione fanno pensare che ci sarà "un peggioramento del rapporto tra pensionati e contribuenti, con rischi crescenti di squilibri per i sistemi previdenziali".

Questo è vero soprattutto in un Paese come l'Italia, in cui la spesa pubblica per le pensioni è "relativamente elevata": 347 miliardi di euro spesi l'anno scorso per 16,2 milioni di pensionati (con assegni più alti per gli uomini e per i residenti al Nord, in media). Nel 2021 la spesa previdenziale valeva il 16,3% del Pil. Era il secondo dato più alto in Europa, dopo la Grecia, e nettamente sopra la media Ue del 12,9%.

Quanto valgono le pensioni e cosa cambierà nei prossimi anni

Nel 2023 l'importo degli assegni è aumentato del 7,1% rispetto all'anno precedente, soprattutto grazie alla perequazione Inps. Le pensioni di vecchiaia valevano in media 964 euro al mese. I cedolini più generosi erano quelli delle pensioni anticipate (o di anzianità), perché nella maggior parte dei casi appartenevano a chi ha avuto carriere più lunghe: l'importo medio era di 2.034 euro al mese.

Dal 2019 al 2021, circa 500mila persone all'anno hanno approfittato dell'anticipo pensionistico; poi il dato è sceso a 400mila persone nel 2022 e 300mila nel 2023. In tutti i casi, la formula più usata è stata quella già prevista dalla legge Fornero, cioè andare in pensione con 42 anni e 10 mesi di contributi (un anno in meno per le donne). E non c'è dubbio proprio questa riforma abbia contribuito ad alzare l'età media delle pensioni, considerando che è passata da circa 62 a circa 64 dal 2012 a oggi, come detto.

In più, la riforma del calcolo contributivo introdotta negli anni Novanta è stata implementata "gradualmente", e quindi il suo effetto sta "iniziando a farsi notare solo ora". La conseguenza della riforma è che sempre di più, nei prossimi anni, l'importo degli assegni di chi lascia il lavoro sarà legato alla quantità di contributi versati, e non agli ultimi stipendi ricevuti.

Che effetto hanno le difficoltà dei giovani sulle pensioni

Un capitolo a parte riguarda i giovani e le loro difficoltà nel mondo del lavoro. O meglio, i discorsi si collegano, perché "per avere un sistema previdenziale solido, occorre offrire ai giovani opportunità di lavoro regolare", secondo l'Inps. Accorciando i tempi di transizione dalla scuola al lavoro, o anche da un lavoro all'altro, si può permettere ai giovani lavoratori di versare contributi, così aiutando chi è in pensione oggi e assicurandosi un assegno sostenibile domani.

Insomma, a chi è giovane viene chiesto di prendersi sulle spalle il sistema pensionistico senza che, in molti casi, abbia gli strumenti per farlo. Non a caso nel 2023 il tasso di dipendenza (ovvero il rapporto tra persone in età non lavorativa e persone in età lavorativa) era pari a 57,4. Normalmente la soglia di riferimento è 50. In sostanza, ci sono molti più anziani che persone in età da lavoro, e questo è destinato a portare a uno squilibrio tra le generazioni. Gli anziani in pensione hanno "una condizione economica migliore rispetto alle altre fasce d'età sia per una minore propensione alla spesa (quantomeno in relazione alle attività quotidiane), ma soprattutto per i frutti di una vita di lavoro, di risparmi e investimenti".

La situazione dei giovani in Italia è "migliorata" ma "non è confortante in assoluto e nel confronto con il resto dei paesi dell'Unione europea". Da una parte c'è l'invecchiamento della popolazione, dall'altra "le difficoltà o alla rinuncia delle giovani generazioni a trovare un lavoro stabile e ben remunerato", insieme alla "bassa percentuale di accesso alla formazione universitaria" e alle "sfide connesse alla creazione di un nuovo nucleo familiare".

Perché le donne hanno pensioni più basse

C'è poi un'attenzione particolare alle madri lavoratrici, nel rapporto. Come detto, le donne hanno in media un assegno più basso degli uomini quando vanno in pensione: rappresentano il 52% della platea dei pensionati, ma ricevono solo il 44% dei soldi usati per pagare i cedolini. Questo in molti casi è dovuto a una carriera più discontinua, con meno possibilità di arrivare a stipendi più alti. E, tra i vari motivi per questa difficoltà, c'è anche la maternità e ciò che comporta nel mondo del lavoro.

Nell'anno successivo alla nascita del primo figlio, le donne che lavorano nel privato hanno una probabilità di abbandonare l'impiego più alta del 18% rispetto agli anni prima. Per i padri, invece, non c'è grande differenza tra il periodo prima e dopo la nascita del figlio. Insomma, avere un bambino porta le donne, non gli uomini, a lasciare il lavoro.

Per di più, chi non abbandona la propria posizione vede comunque un calo del reddito pari, in media, a circa il 16% nell'anno successivo alla nascita. Se non ci fossero indennità per il congedo di maternità e congedo parentale, questo calo sarebbe di quasi l'80%. Ci vogliono in media quattro anni di tempo per ritornare al livello di reddito pre-figlio.

Si parla naturalmente sempre delle madri: i padri, infatti, non risentono della nascita dal punto di vista del reddito. Perciò nel primo anno del bambino il gap salariale (la differenza di stipendio) tra i due genitori, se prima era pari a zero, cresce fino al 30%. Poi si mantiene su questo livello per circa sette anni, prima di iniziare a diminuire se entrambi continuano con la propria carriera lavorativa.

La situazione è migliorata leggermente con l'estensione a dieci giorni del congedo obbligatorio di paternità. Questo ha aumentato la percentuale di uomini che lo usano: il 64,5%, quasi due su tre. L'Inps sottolinea che questo conferma come "questo strumento possa favorire una maggiore partecipazione degli uomini alle responsabilità familiari". Anche perché più gli uomini usano il congedo di paternità, più sono spinti a usare anche parte del congedo parentale.

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