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Perché il problema di Elly Schlein non è la sconfitta del Pd alle amministrative



Più dei ballottaggi persi alle amministrative, la segretaria del Pd deve preoccuparsi di un partito attraversate da faide fratricide, di opposizioni balcanizzate e di una piattaforma politica che fatica a manifestarsi. Istruzioni per l’uso sulla traversata del deserto.
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Spoiler alert, prima che vi mettiate a leggere: questo non è un articolo in cui si dice che Elly Schlein non abbia fatto errori, in questi primi due mesi da segretaria del Pd. E non è nemmeno un articolo ottimista sulle sorti della sinistra in Italia e in Europa. Sarebbe assurdo anche solo pensarlo, con Fratelli d’Italia che veleggia tranquilla attorno al 30% e la coalizione di destra che bordeggia il 45% nonostante lo smantellamento del reddito di cittadinanza, due leggi di bilancio non certo entusiasmanti e la prospettiva di veder svanire nel nulla i soldi del Pnrr.

Questo semmai è un articolo sul vizio antico della sinistra di bruciare leader alla velocità della luce, di ingaggiare lotte fratricide coi propri vicini di casa, spesso pure coi propri coinquilini, anziché preoccuparsi di trovare con loro una sintesi per battere gli avversari politici, di usare pretestuosamente ogni appuntamento elettorale per regolare i conti al proprio interno. Così come sta accadendo, proprio davanti ai nostri occhi, a seguito del voto amministrativo di domenica e lunedì scorsi, in cui il Pd ha perso buona parte dei ballottaggi in cui concorreva.

Partiamo da qui, per l’appunto. Dall’esito di un voto amministrativo che non si può ignorare, certo, ma a cui non bisogna eccedere nell’attribuire significati politici. Primo: perché è un voto amministrativo, per l’appunto, in cui contano e pesano mille fattori locali, nella buona e nella cattiva sorte. Secondo: perché quel voto non avrebbe spostato di una virgola il baricentro politico pendente a destra nemmeno se il centrosinistra avesse trionfato ai ballottaggi, così come non l’ha spostato la scorsa primavera. Colpa – o merito, dipende dai punti di vista – di una legge elettorale che alle elezioni politiche premia le coalizioni unite, attribuendo loro un premio di maggioranza enorme grazie ai seggi attribuiti col metodo uninominale.

Il centrosinistra, attualmente diviso, non ha speranza di contendere il governo del Paese alle destre sino a che non si unirà in una coalizione capace di arrivare anch’essa a lambire il 45% dei consensi. 

Come ci si arrivi, a questo esito, con quale alchimia, e con quali alleanze, non è attualmente dato saperlo, ma una cosa è certa: è difficile, se non impossibile, arrivarci senza un Partito Democratico che sia forte e baricentrico tra le istanze più riformiste e quelle più radicali. Su questo, anche oggi, non si può imputare alcunché ad Elly Schlein: che nei suoi due mesi di segreteria ha rafforzato il consenso al partito, portandolo sopra l’asticella del 20% e staccando nettamente il Movimento Cinque Stelle, cui molti commentatori avevano preconizzato la prossima egemonia del campo progressista, a inizio legislatura, complice la guerra di Giorgia Meloni al reddito di cittadinanza. Cosa che probabilmente sarebbe avvenuta – e stava effettivamente avvenendo – senza l’inversione di tendenza impressa dall’elezione di Schlein.

Che questa crescita, evidente e certificata, non si sia ancora nemmeno lontanamente sufficiente a impensierire Giorgia Meloni e la sua luna di miele con la Penisola è altrettanto evidente e certificato. Ma anche in questo caso, forse, serve più pazienza che altro. E magari dare un occhio altrove aiuterebbe: Giorgia Meloni stessa ha traccheggiato per anni tra il 4 e il 5 per cento prima di spiccare il volo. E lo stesso si può dire di Matteo Salvini nella sua esperienza di segretario leghista. A destra nessuno si è mai sognato di mettere in discussione la loro leadership dopo una tornata amministrativa finita male. Quanto sta accadendo a Elly Schlein – e che è accaduto prima di lei a Enrico Letta, a Nicola Zingaretti, allo stesso Matteo Renzi – è un processo di logoramento interno che fa più danni di una sconfitta elettorale. E che i giornali di destra – basta vedere le prime pagine di questi ultimi due giorni per rendersene conto – hanno buon gioco a rinfocolare.

Se traversata nel deserto dev’essere, bisogna innanzitutto predisporsi ad affrontarla con pazienza e sangue freddo. Sapendo che ci saranno tante brucianti sconfitte sul sentiero, a partire dalle prossime europee su cui soffia un vento di destra che batte tutta Europa, da est a ovest. Che la costruzione di alleanze sociali e politiche sarà molto complessa dopo anni di balcanizzazione. Che non basta scopiazzare qua e là modelli e leadership straniere, ieri era Obama, oggi Sanchez, domani chissà, per attecchire nel corpo della società italiana. Che il primo passo per provare a costruire una vittoria prossima ventura sta nella capacità di rimanere in piedi e di non cambiare direzione di marcia dopo una, dieci, cento sconfitte. È di questo che Elly Schlein si deve preoccupare, non dei ballottaggi alle amministrative. Se sarà capace di farlo, buon per lei e per il centrosinistra. Altrimenti, avanti il prossimo.

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Francesco Cancellato è direttore responsabile del giornale online Fanpage.it e membro del board of directors dell'European Journalism Centre. Dal dicembre 2014 al settembre 2019 è stato direttore del quotidiano online Linkiesta.it. È autore di “Fattore G. Perché i tedeschi hanno ragione” (UBE, 2016), “Né sfruttati né bamboccioni. Risolvere la questione generazionale per salvare l’Italia” (Egea, 2018) e “Il Muro.15 storie dalla fine della guerra fredda” (Egea, 2019). Il suo ultimo libro è "Nel continente nero, la destra alla conquista dell'Europa" (Rizzoli, 2024).
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