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Cambiamenti climatici

Perché il Piano Mattei del governo Meloni è anacronistico e ci allontana dall’indipendenza energetica

Il governo lavora per fare dell’Italia un hub europeo del gas: una scelta anacronistica, che insegue gli interessi per il profitto delle aziende fossili, invece di investire in rinnovabili che garantirebbero davvero il tanto sbandierato obiettivo dell’indipendenza energetica. Il Piano Mattei ignora la crisi climatica e gli obiettivi sulla transizione ecologica, ma piace tanto ai sovranisti.
A cura di Fabio Deotto
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Giorgia Meloni in Algeria per firmare gli accordi sul gas
Giorgia Meloni in Algeria per firmare gli accordi sul gas
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Avere la possibilità di fare qualcosa non significa che si debba necessariamente farla. Pare un’attitudine ragionevole, persino ovvia, finché non viene applicata al denaro. Nella maggior parte dei casi, avere la possibilità di ottenere un profitto nel breve termine e non sfruttarla sembra essere la peggiore delle sciagure, quasi una blasfemia. Di sicuro lo è per l’attuale governo italiano, che di fronte a una crisi climatica ed energetica ormai entrata nel suo vivo, nonostante abbia tutte le carte in regola per arginare la propria dipendenza dai fossili investendo sulle rinnovabili, dichiara petto in fuori di voler trasformare il paese in un “hub europeo per il gas”.

Che Giorgia Meloni e i suoi ministri giochino una partita di retroguardia sulla questione climatica non è una novità, come non è una novità l’infatuazione di questo governo per i combustibili fossili e le aziende che li producono e distribuiscono. Ma questa faccenda dell’hub europeo del gas è particolarmente disturbante, perché l’orizzonte che questi autoproclamati paladini dell’autonomia energetica italiana stanno rincorrendo è a tutti gli effetti un miraggio.

L’imbarazzante anacronismo del Piano Mattei

Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha dichiarato che entro la fine dell’anno il nostro Paese sarà in grado di emanciparsi dalle importazioni di gas russo. Il riferimento è alla scelta di installare due nuovi rigassificatori, a Piombino e a Ravenna, che dovrebbero consentire di sopperire a quei 10 miliardi di metri cubi di gas che ancora oggi importiamo da Mosca. Lo scorso 13 febbraio, prima di partire in una missione ufficiale a Baku, in Azerbaigian, Urso ha
tracciato in maniera più definita l’orizzonte delle ambizioni future italiane nel Mediterraneo: “Sono convinto – ha dichiarato – che grazie alla sua posizione geografica tra il Mar Caspio e i paesi dell’Asia centrale, ricchi di energia e di materie prime, l’Azerbaigian possa diventare sempre più il ponte verso il nostro Paese, l’Europa e il Mediterraneo, confermando così il ruolo dell’Italia di hub energetico dell'Europa.”

Già oggi il paese transcaucasico rifornisce l’Italia di petrolio e metano, ruolo che verrà consolidato con l’annunciato raddoppio di quel Gasdotto Transoceanico (TAP) che al momento garantisce il trasporto di circa 10 miliardi di metri cubi di gas fossile dall’Azerbaigian alla Puglia. Ma la missione a Baku è solo un tassello del mosaico di accordi con gli stati nordafricani e mediorientali che il governo Draghi aveva battezzato e che il governo Meloni intende portare a termine entro fine decennio. Tra dicembre 2022 e febbraio 2023 le aziende di Stato italiane hanno stretto accordi bilaterali con l’Algeria per l’incremento delle forniture di gas, intanto Eni ha sottoscritto con l’azienda libica Noc un accordo da 8 miliardi di dollari per l’aumento delle forniture di metano, mentre la Commissione Europea ha dato il via libera alla realizzazione di un’infrastruttura di connessione energetica tra Italia e Libia.

Lo chiamano “Piano Mattei”, un esplicito riferimento a quell’Enrico Mattei fondatore di Eni e alla sua politica di accordi internazionale che lo mise in contrasto con il monopolio di quelle aziende petrolifere che al tempo venivano chiamate “sette sorelle” (Mobil, Texaco, Socal, Gulf oil, Royal Dutch Shell e British petroleum). L’entusiasmo con cui questo governo muove le pedine sullo scacchiere geopolitico è palpabile (e a scanso di equivoci, non passa giorno senza che qualcuno si batta il petto parlando di Piano Mattei), quello che evidentemente sfugge a Giorgia Meloni e colleghi, però, è che non siamo più negli anni ‘50, c’è una crisi climatica in atto, il ruolo dei combustibili fossili è destinato a ridursi rapidamente e la tanto invocata indipendenza energetica non potrà essere ottenuta a colpi di gasdotti e accordi bilaterali con petrostati.

La saturazione fantasma

Per ora, al di là dei pochi accordi stipulati, e dell’intenzione più volte sbandierata di trasformare l’Italia nella porta di accesso europea per il gas del sud Mediterraneo, non è ancora chiaro che tipo di scenario finale abbia in mente il governo  con questo piano. Quello che è chiaro, in compenso, è che la capacità di importazione di gas che l’Italia oggi può vantare è già sovradimensionata rispetto ai consumi reali del paese.
A rivelarlo è un dossier presentato da 15 associazioni indipendenti all’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente (Arera), e che si concentra sul progetto Snam chiamato “Linea Adriatica”, un gasdotto che dovrebbe collegare Sulmona, in provincia dell’Aquila, a Minerbio, in provincia di Bologna, e per il quale è previsto un investimento di 2,4 miliardi di euro. Nella relazione presentata da Snam lo scorso novembre il progetto viene descritto come necessario per far fronte a linee di
trasporto “prossime alla saturazione”, e che dunque non sarebbero in grado di sopportare un atteso incremento di flussi legato alla necessità di smarcarsi dal gas russo e da un’ipotetica crescita nei consumi di gas.

Lo scenario che emerge dai dati raccolti nel dossier intitolato L’Italia verso una inutile sovracapacità fossile: a quali costi?, tuttavia, è assai differente: i consumi reali di gas fossile sul suolo italiano oggi ammontano a 68 miliardi di metri cubi, una cifra tutt’altro che insostenibile a fronte di una capacità di importazione pari a 92 miliardi di metri cubi. Basti pensare che nei tre terminali di Gela, Mazara del Vallo e Tap ogni giorno transitano 110 milioni di metri cubi, con una
capacità potenziale che supera invece i 170 milioni. In pratica già oggi abbiamo una sovracapacità di oltre 20 miliardi di metri cubi, con gli investimenti proposti arriveremmo di qui al 2030 a superare i 100 miliardi di metri cubi importabili, nonostante si preveda un calo dei consumi al di sotto dei 60.

Anche l’argomentazione secondo cui le nuove infrastrutture potranno in futuro essere sfruttate per il trasporto di idrogeno non sta in piedi: innanzitutto perché i progetti di cui stiamo parlando sono in grado di trasportare una miscela di metano con minime percentuali di idrogeno, inoltre con ogni probabilità l’idrogeno in futuro avrà una distribuzione completamente diversa rispetto a quella del gas, seguirà percorsi differenti, inoltre diversi studi indicano un fabbisogno previsto di gran lunga inferiore a quello attuale del gas.

Prepararsi a un futuro che non esiste

Ci sarebbe da ridere, se non stessimo giocando al Risiko fossile in piena crisi climatica. E la nostra posizione appare ancor più ridicola se teniamo conto che il mercato del gas è destinato a contrarsi già nel medio termine. Mentre il governo italiano stringe accordi per trasformare il paese in un hub di riferimento per il gas europeo di qui al prossimo decennio, tutte le previsioni che tengano conto di un certo grado di transizione energetica danno il consumo di gas in forte calo, in particolare a partire dal 2030. Persino l’Energy Outlook 2023, pubblicato di fresco dal colosso petrolifero BP, mostra uno scenario di rapido pensionamento del gas: stando alle previsioni, la domanda di gas fossile in UE si manterrà più o meno stabile dei prossimi sette anni, per poi calare rapidamente a partire dal 2030.

La crescita sempre più rapida delle rinnovabili (in particolare eolico e solare), i provvedimenti di efficientamento e risparmio energetico e la progressiva elettrificazione dei consumi energetici farà sì che di qui al prossimo decennio la domanda europea di gas scenderà di una percentuale compresa tra il 40% e il 50%. Le stime parlando di un potenziale incremento del mercato del gas globale, è vero, ma solo nell’eventualità che la transizione ecologica proceda a rilento, con un ruolo decisivo dei paesi emergenti nella crescita dei consumi fossili. Insomma, a quanto pare chiunque è al corrente del tipo di scenario che ci aspetta, persino chi sui combustibili fossili ha costruito un impero è al corrente della situazione. Chiunque, a parte il governo italiano.

Il freno a mano italiano sulle rinnovabili

E dire che il nostro paese avrebbe tutte le carte in regola per diventare un punto di riferimento europeo per le rinnovabili. Basti pensare che siamo al secondo posto al mondo (dietro al Giappone) per quanto riguarda la quota di energia solare nel complesso dell’energia primaria consumata; abbiamo inoltre una tradizione di eccellenza in ambito geotermico, tanto da essere al primo posto in UE. Il problema dunque non è tanto che l’Italia non possa affidarsi alle rinnovabili, ma che non si
decida a investirci. Stando ai dati ufficiali forniti da Terna, proprietario della rete di trasmissione nazionale italiana (RTN), le richieste di connessione alla rete di nuovi impianti da rinnovabili è cresciuta al punto da raggiungere un potenziale installato di 110 gigawatt, ben più dei 70 GW previsti entro il 2030 dal pacchetto Fit for 55 europeo. Il think tank italiano ECCO ha stimato che una simile crescita nell’installazione di rinnovabili ci metterebbe nella condizione di sostituire almeno l’80% del gas importato fino al 2022 dalla Russia già entro il 2025.

A inizio febbraio l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea) ha pubblicato un report che mostra come già nel 2025 le rinnovabili diventeranno la prima fonte di energia elettrica globale, con una crescita prevista di 2,450 TWh che porterebbe a superare il carbone come prima fonte di energia globale. Il grosso di questo incremento (70%) arriverà probabilmente da Cina, India e Sudest asiatico; ma anche l’UE sta registrando una crescita, soprattutto per quanto riguarda le nuove installazioni di solare. In testa spicca la Germania, che nel 2022 ha installato 7,9 GW di solare, seguita da Spagna, Polonia, Paesi Bassi e Francia. L’Italia è soltanto al sesto posto, ciò nonostante i 2,6 GW di solare installati nel 2022 rappresentano un balzo netto del 174% rispetto al 2021. Ma è ancora troppo poco, considerando che abbiamo bisogno di almeno 8 nuovi GW di rinnovabili l’anno di qui al 2030.

Se l’obiettivo del governo Meloni fosse davvero l’indipendenza energetica del nostro paese, investire in modo massiccio sulle rinnovabili sarebbe la soluzione più sensata sia dal punto di vista ambientale che economico. Invece, la direzione che stiamo seguendo prevede lo stanziamento di miliardi per nuove infrastrutture fossili che richiederanno tra i 10 e 20 anni per rientrare nei costi di investimento, e che andranno a pesare sulle bollette future.

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