Perché il femminicidio di Giulia Cecchettin ci ha toccato così profondamente?
Migliaia di persone hanno riempito la Basilica Santa Giustina a Padova per dare l'ultimo saluto a Giulia. E altrettante hanno seguito i funerali in diretta, richiamate dal bisogno di partecipare in qualche modo a tutto quel dolore. Dolore per la morte di una persona che non conoscevamo e che non aveva nulla a che fare con le nostre vite fino a qualche settimana fa. Ma che le poi ha scosse irrimediabilmente. O almeno, questa è la speranza: che questo ennesimo femminicidio rappresenti anche un punto di non ritorno, dal quale iniziare a sradicare una volta per tutte ogni convinzione, comportamento o consuetudine anche lontanamente patriarcale.
Giulia Cecchettin è stata la 105esima donna uccisa in Italia da inizio anno. Dalla sua morte l'elenco si è già allungato: nel momento in cui si scrive gli omicidi con vittime donne sono 109. Sono numeri che ci parlano di un fenomeno diffuso, purtroppo, radicato a livello culturale e sociale. Tante delle 109 donne uccise quest'anno rimangono un numero agli occhi dei più, non ne ricordiamo il nome o la storia. Di Giulia Cecchettin invece abbiamo parlato tutti.
"Ne sono state ammazzate tante di ragazze e di donne e nessuno ne parla mentre le televisioni stanno facendo diventare questo caso una telenovela nazionale", ha detto ad Affaritaliani.it il consigliere regionale veneto Stefano Valdegamberi, già noto alle cronache per aver aver attaccato la sorella di Giulia, Elena Cecchettin, e per questo scaricato anche dal governatore veneto Luca Zaia, nella cui lista era stato eletto. Sono frasi che dimostrano, ancora una volta, l'inadeguatezza al suo ruolo del consigliere regionale, che dimostra di non aver capito nulla dell'impatto della morte di Giulia sulla comunità allargata, né del suo significato.
Torniamo così alla nostra domanda iniziale: perché il femminicidio di Giulia Cecchettin ci ha toccato così profondamente?
La rabbia e l'esasperazione che moltissime donne hanno raccontato dopo la morte di Giulia è il risultato della combinazione di diversi fattori, probabilmente. C'è stata sicuramente una fortissima attenzione mediatica al caso, dovuta alla fattispecie dello stesso: la storia di due ragazzi appena ventenni scomparsi nel nulla per giorni ha tenuto tante persone con il fiato sospeso per una settimana. Si è diffuso un sentimento di angoscia collettiva, in moltissime donne mischiato a una stretta allo stomaco – a quello che inglese si chiama gut feeling – per il timore di sapere come fosse andata a finire. Passavano i giorni, Giulia non si trovava e ansia, rabbia e dolore crescevano. E quando è arrivata la notizia di un corpo, il suo, sul lago di Barcis, è esploso tutto.
Non è solo il fatto di aver incubato queste emozioni per giorni. Se il femminicidio di Giulia ha avuto un impatto così forte sulla comunità allargata, quella di un intero Paese, è dovuto anche ai suoi 22 anni. All'essere stata a un passo dalla laurea. All'avere avuto un viso e una storia in cui tantissime si sono riconosciute. Una ragazza ordinaria, una vita normalissima, che avrebbe potuto essere quella di mille altre, con cui è stato semplicissimo identificarsi.
E poi c'è stata la famiglia di Giulia. Un padre, un fratello e una sorella che sono riusciti, con lucidità estrema nonostante il momento difficilissimo, a trasformare il loro dolore personale in un messaggio potente. Elena Cecchettin senza giri di parole ha detto le cose come stanno:
Turetta viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. È un figlio sano del patriarcato, della cultura dello stupro.
È responsabilità degli uomini in questa società patriarcale dato il loro privilegio e il loro potere, educare e richiamare amici e colleghi non appena sentano il minimo accenno di violenza sessista.
Il femminicidio è un omicidio di Stato, perché lo Stato non ci tutela, perché non ci protegge. Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere.
Elena Cecchettin ha chiamato in causa la responsabilità collettiva, ha fatto sì che la sua voce diventasse quella di tante, le sue parole una presa di posizione contro un sistema culturale e sociale che miete ancora troppe vittime. Non ha parlato del caso specifico – nonostante Giulia l'abbia persa in primis lei con la sua famiglia – ma di cambiamento culturale, di educazione affettiva, di stereotipi, discriminazioni e patriarcato.
Lo stesso ha fatto il padre di Giulia, Gino Cecchettin, che davanti alla bara di sua figlia ha ribadito il coinvolgimento necessario di ciascuno di noi. A partire dagli uomini.
Ci sono tante responsabilità, ma quella educativa ci coinvolge tutti. Mi rivolgo prima agli uomini: parliamo agli altri maschi, per primi dobbiamo dimostrare di essere agenti di cambiamento, contro la violenza di genere. Non giriamo la testa di fronte a determinati gesti, anche i più lievi.
Chiamarci fuori, difendere il patriarcato, trasformando le vittime in bersagli, non aiuta ad abbattere le barriere. Da questa violenza si esce fuori sentendosi tutti coinvolti, anche quando ci si sente tutti assolti.
E forse, infine, c'è un altro motivo del perché questo caso ci ha toccato così tanto, più di altri. Forse perché Giulia, con il suo volto e la sua storia, ci ha spiazzato fino al midollo, fino all'ultimo rimasuglio di patriarcato che noi tutti – figli della nostra società e della cultura in cui siamo cresciuti – abbiamo in qualche modo introiettato.
Forse questa volta non siamo riusciti a trovare alcuna colpa in Giulia. Colpa di essere troppo libertina, troppo appariscente, troppo fuori dagli schemi. O al contrario troppo ingenua, per essere rimasta al fianco di un uomo violento. Forse qualcosa di Giulia ci ha costretti a indignarci fino in fondo. E, allo stesso tempo, ci obbliga a guardare indietro, a tutte quelle donne uccise nel silenzio totale, e a chiederci come sia stato possibile. E, soprattutto, come possa non accadere più.