Il ministro Piantedosi li aveva definiti "carico residuale", ma tutti i richiedenti protezione a bordo della Humanity 1 avevano dei diritti, che il governo Meloni doveva rispettare, e che invece ha calpestato. Questo è quel che sottolinea il Tribunale di Catania, con un’ordinanza che condanna i ministeri dell’Interno, della Difesa e delle Infrastrutture a pagare le spese processuali. Per farlo, analizza il decreto interministeriale che Piantedosi, Crosetto e Salvini avevano emanato per vietare alla nave della Ong, con 179 naufraghi a bordo, di "sostare nelle acque territoriali nazionali oltre il termine necessario alle operazioni di soccorso e assistenza nei confronti delle persone che versino in condizioni emergenziali e in precarie condizioni di salute segnalate dalle competenti Autorità nazionali". Quell’ordine, però, era illegittimo.
Il caso della nave umanitaria Humanity 1
Il 5 novembre 2022, dopo diversi giorni di navigazione e con condizioni meteo avverse, alla Humanity viene finalmente assegnato il porto di Catania come place of safety. Il giorno prima, però, il ministro dell’Interno, di concerto con quelli della Difesa e delle Infrastrutture, aveva emanato un atto che impediva lo sbarco dei naufraghi, prevedendo il soccorso per le sole persone che versassero in "condizioni emergenziali". I primi naufraghi assistiti e fatti sbarcare furono 144, in precarie condizioni di salute. A bordo rimasero 35 persone, il "carico residuale": nelle intenzioni del governo sarebbero dovuti uscire dalle acque territoriali, eppure l’8 novembre 2022, dopo diversi incidenti diplomatici, sbarcarono. Nel frattempo, avevano manifestato l’intenzione di presentare richiesta di protezione internazionale e, di fronte ai divieti ministeriali, avevano presentato un ricorso cautelare al Tribunale di Catania.
Da un punto di vista giudiziario, il fatto che, alla fine, tutti i naufraghi siano sbarcati significa che è "cessata la materia del contendere": il motivo per il quale si chiedeva il giudizio è venuto meno, la sentenza non serve più. Il tribunale, però, deve decidere sulle spese di giudizio, attribuendole all’una o all’altra parte (o, in altri casi, a entrambe). E, per farlo, segue il principio della soccombenza virtuale, cioè valuta comunque la questione e condanna in questo caso i ministeri dell’Interno, della Difesa e delle Infrastrutture, perché il loro decreto era contrario sia alle leggi nazionali, sia alle norme internazionali.
La violazione dei diritti oltre la propaganda
Innanzitutto, il Tribunale ricorda che il decreto interministeriale in questione è, come (quasi) tutti gli ordini governativi, un semplice atto amministrativo. Ma gli atti amministrativi devono essere applicati "in quanto conformi alla legge", il che significa che, se invece non rispettano la legge, possono (anzi devono) essere disapplicati.
È quel che è accaduto al decreto Piantedosi-Crosetto-Salvini e il Tribunale spiega, in maniera sintetica ma completa, il perché.
Primo. La convenzione UNCLOS sul soccorso in mare, che l’Italia ha ratificato nel 1989, impone di fornire assistenza a ogni naufrago, senza distinzioni, nemmeno sulla base delle condizioni di salute. La ragione di un simile obbligo è tanto semplice quanto logica: in una fase di soccorso, la priorità è salvare vite, a prescindere che il naufrago sia un appassionato di pesca sportiva, il proprietario di uno yacht affondato o una persona in fuga dai lager libici. E il soccorso deve essere il più semplice e spedito possibile. La logica è la stessa di un’ambulanza che accorre sul luogo di un incidente: i paramedici trasportano i feriti in ospedale, senza preoccuparsi di compilare la constatazione amichevole.
Secondo. Il soccorso non si esaurisce con l’assistenza in mare, ma si conclude solo quando il naufrago sbarca in un luogo sicuro (place of safety), dove possono essere garantite le necessità umane primarie: cibo, alloggio, cure mediche, protezione internazionale. Lasciare un naufrago su una nave equivale a non prestare il soccorso completo richiesto dagli obblighi internazionali.
Perché il decreto di Piantedosi, Salvini e Crosetto era illegittimo
Terzo. Tra le necessità umane primarie, come anticipato, c’è anche il diritto di richiedere la protezione internazionale. Chiunque entri in uno Stato deve poter presentare una richiesta simile. La legge italiana, in linea con il sistema internazionale, prevede che il richiedente ottenga un permesso di soggiorno temporaneo, in attesa che si esprima la commissione che valuta i requisiti di protezione. Pur avendo manifestato la volontà di chiedere protezione, i trentacinque naufraghi che non versavano in condizioni mediche di emergenza sono invece stati lasciati ad aspettare sulla nave.
Quarto. Impedire in questo modo il diritto di richiedere asilo o protezione internazionale viola anche la Convenzione europea sui diritti umani (CEDU), perché il decreto interministeriale avrebbe messo in atto un’espulsione collettiva. L’espulsione collettiva è illegittima (e l’Italia è stata condannata più e più volte per questa prassi) perché infrange due diritti fondamentali. Da un lato, cacciare dei richiedenti protezione significa respingerli alla situazione di danno o di pericolo da cui provengono: e questo significa calpestare il diritto di non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti (art. 3 CEDU). Dall’altro, non viene garantito un rimedio effettivo contro l’espulsione (art. 13 CEDU), proprio perché la situazione del naufrago, nella sua individualità, non viene analizzata, e la protezione viene negata a priori, con un respingimento collettivo.
Insomma, il decreto firmato dai ministri Piantedosi, Crosetto e Salvini era illegittimo, e calpestava tanto i princìpi sul soccorso in mare quanto i diritti umani di protezione internazionale, confermando ancora un'azione di governo, specie su profughi e sbarchi, più di propaganda che di sostanza.