Durante le comunicazioni alla Camera dei deputati del Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni i banchi del MoVimento 5 Stelle sono rimasti vuoti. I deputati grillini hanno scelto di protestare in questo modo per la soluzione della crisi individuata dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il quale ha deciso di optare per un Governo “con pieni poteri”, che armonizzi la legge elettorale e sbrighi alcuni affari urgenti. Una forma di protesta che sarà accompagnata da un “flash mob” in una piazza italiana, durante il quale verrà simulata una seduta parlamentare.
La polemica dei 5 Stelle nei confronti della maggioranza e, anche, delle istituzioni è comunque ai massimi storici, tanto che in questi giorni si è anche ipotizzato che potessero far ricorso a una forma di protesta che avrebbe del clamoroso: le dimissioni in massa dalla carica parlamentare. Una sorta di Aventino, insomma, che sarebbe stata caldeggiata da esponenti di primo piano del MoVimento, come dimostrazione della determinazione nel non prestarsi a una manovra tutta politicista, avente come scopo recondito “la maturazione del vitalizio per i parlamentari”. Sul punto, tantissimi fra iscritti e militanti si sono detti favorevoli, reputando “non sufficiente” la mobilitazione promessa dallo stesso Beppe Grillo.
La questione è però piuttosto complessa, dal momento che, sostanzialmente, una protesta di questo tipo sarebbe non soltanto inutile, ma perfino inapplicabile (oltre a costituire un precedente clamoroso).
Per capire il perché basta valutare quale sia la normativa attualmente in vigore per le “dimissioni” dalla carica di parlamentare. I regolamenti sono infatti impostati sugli articoli 23 e 67 della Costituzione che, rispettivamente, stabiliscono:
- Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.
- Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.
Dunque, sia accettare che rifiutare un incarico pubblico è scelta individuale e non può essere influenzata dal partito di appartenenza. Allo stesso tempo però i regolamenti devono tutelare l’individuo (che dunque non può essere “dimissionato” o costretto a subire pressioni) che l’istituzione, che deve essere sempre in grado di proseguire il proprio lavoro.
Quando un parlamentare si dimette per motivazioni “di altra natura” che non sia quella di accettare una carica incompatibile col proprio ruolo, le dimissioni devono essere sempre accolte con un voto della camera di riferimento. In base all'articolo 49 primo comma del Regolamento della Camera e dall'articolo 118 comma 3 di quello del Senato, le votazioni su provvedimenti che riguardano le persone avvengono sempre a scrutinio segreto. Per prassi le prime dimissioni vengono sempre respinte. E la stessa cosa può avvenire per la seconda e la terza votazione. Con un dispendio di mesi e mesi di lavoro, anche considerando il fatto che le votazioni devono avvenire singolarmente per ogni deputato.
Ma non solo, perché il meccanismo prevede che, nel caso di dimissioni accettate, subentri nella pienezza delle sue funzioni il primo dei non eletti nel collegio / circoscrizione di provenienza del dimissionario. Dunque sarebbero chiamati poi a dimettersi anche i non eletti, per un percorso che durerebbe mesi, o meglio, anni.
Insomma, le dimissioni in massa, non solo non avrebbero effetto sull'istituzione, che continuerebbe a funzionare, ma nemmeno sugli stessi parlamentari, che continuerebbero a essere deputati o senatori.
I precedenti, per il solo MoVimento 5 Stelle, sono chiarissimi, come riporta OpenPolis:
Nessuno eletto del Movimento 5 stelle che ha tentato di dimettersi è riuscito nel suo intento . 10 votazioni che hanno coinvolto 6 parlamentari, tutte con esito negativo. Parliamo nello specifico di Laura Bignami (dimissioni respinte l’11 giugno del 2014), Cristian Iannuzzi (due volte, la prima il 12 febbraio 2015, la seconda il 27 febbraio 2015), Giovanna Mangili (anche lei due volte, il 3 aprile 2013 e il 17 aprile successivo), Francesco Molinari (dimissioni respinte il 17 febbraio 2015), Maria Mussini (votazione avvenuta l’11 giugno 2014), Ivana Simeoni (il 17 febbraio 2015), e il citato Giuseppe Vacciano (con tre votazioni, la prima il 17 febbraio 2015, la seconda il 16 settembre 2015 e la terza il 13 luglio 2016).