Gli ultimi otto anni sono stati i più caldi di sempre. E mentre le temperature continuano ad aumentare, i ghiacciai a sciogliersi e il livello del mare ad alzarsi, ci sono interi ecosistemi che rischiano il collasso. Il cambiamento climatico ci riguarda tutti, ma per alcuni significherà perdere la propria casa. Non solo a causa dei disastri naturali sempre più frequenti e imprevedibili, ma anche per un ambiente che, in alcuni casi, rischia di diventare inospitale per l'uomo.
Pensiamo alle temperature estreme e alla siccità nell'Africa subsahariana. Ci sono intere popolazioni la cui sussistenza dipende dall'agricoltura: la mancanza di acqua e il caldo torrido potrebbero mettere a rischio i raccolti e costringere le persone ad abbandonare interi territori. O ancora, le popolazioni costiere dell'America centrale potrebbero trovarsi costrette a lasciare le zone in cui vivono a causa di uragani e alluvioni. Migrare, insomma, potrebbe diventare una strategia di adattamento al cambiamento climatico.
Questo, però, non colpirà tutti allo stesso modo. Ad essere più esposte saranno le popolazioni già più povere e vulnerabili, che non avranno la stessa capacità di reazione del Nord del mondo. Secondo il database che monitora gli spostamenti interni a livello globale, nel 2020 30,7 milioni di persone sono rimaste sfollate a causa del cambiamento climatico. E queste si trovano principalmente nel continente africano, in Medio Oriente, in America Centrale e nel Sud-Est asiatico.
Invisibili davanti alla legge
Insomma, si tratta di realtà che riguarda soprattutto i Paesi a medio e basso reddito, nonostante non siano questi i principali responsabili del cambiamento climatico. Si tratta anche di un fenomeno in crescita. Secondo un report della Banca mondiale entro il 2050 oltre 200 milioni di persone saranno costrette a lasciare la loro casa a causa del clima. Molti, probabilmente, continueranno a spostarsi entro i confini del proprio Paese. Altri, invece, li attraverseranno.
Ad oggi queste persone rimangono per la maggior parte invisibili davanti alla legge. Se da un lato è vero che negli ultimi anni sono stati fatti degli importanti passi avanti, riconoscendo in diversi forum internazionali il legame tra cambiamento climatico e migrazioni, dall'altro manca una vera e propria integrazione normativa delle due cose. In poche parole, ai migranti climatici non viene riconosciuto lo status di rifugiati, non possono cioè beneficiare della protezione internazionale quando sono costretti ad abbandonare le loro case.
Un vulnus che lascia queste persone doppiamente vulnerabili. Non vedersi riconoscere la protezione internazionale significa infatti essere rimandati indietro, rimpatriati, verso quel Paese in cui però non ci sono più condizioni di vita sicure.
Lo status di rifugiato
La normativa di riferimento è quella della Convenzione di Ginevra del 1951, secondo cui il rifugiato è
chiunque, per causa di avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951 e nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi.
Dentro a questa definizione, ad oggi, sono state riconosciute le persone che scappano da conflitti armati, persecuzioni, guerre civili, violenza. È molto complesso, però, dimostrare come il cambiamento climatico sia il diretto responsabile delle ragioni che rendono un determinato luogo pericoloso. Spesso, però, è proprio il cambiamento climatico ad esacerbare tensioni sociali o politiche, nonché violenze o discriminazioni verso determinati gruppi.
Una crisi che si aggrava
"Senza investimenti urgenti nella mitigazione e nell'adattamento ai cambiamenti climatici, i Paesi del Sahel rischiano decenni di conflitti armati ed esodi esacerbati dall'aumento delle temperature, dalla scarsità di risorse e dall'insicurezza alimentare", si legge nell'ultimo report del Coordinatore speciale delle Nazioni Unite per lo sviluppo del Sahel con l'Unhcr, l'Agenzia ONU per i rifugiati. E ancora: "Se non controllata, l'emergenza climatica metterà ulteriormente a rischio le comunità saheliane, in quanto inondazioni, siccità e ondate di calore devastanti comprometteranno l'accesso all'acqua, al cibo e ai mezzi di sussistenza e amplificheranno il rischio di conflitti".
Insomma, a meno che non sia messa in atto a breve una radicale inversione di marcia per quanto riguarda le politiche ambientali, i migranti climatici sono destinati ad aumentare. Nel 2020 Unhcr pubblicava le "Legal considerations regarding claims for international protection made in the context of the adverse effects of climate change and disasters", delle linee guida per includere la questione climatica nel perimetro delle richieste di protezione internazionale.
Le considerazioni dell'Onu
Nelle loro considerazioni, le Nazioni Unite sottolineano quanto sia importante riconoscere anche a livello giuridico e normativo questo legame tra cambiamento climatico e migrazioni. E citano due esempi di convenzioni internazionali al passo con i tempi. La Convenzione dell'Organizzazione dell'Unità Africana che disciplina gli aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in Africa (detta semplicemente Convenzione sui rifugiati dell'OUA) e la Dichiarazione di Cartagena sui Rifugiati (oppure solamente Dichiarazione di Cartagena).
Si tratta di accordi internazionali che riguardano due regioni precise del pianeta: quella africana e quella dell'America latina, tra le più colpite dal cambiamento climatico. Grazie a questi documenti oggi sono 48 i Paesi africani e 14 quelli sudamericani che riconoscono come rifugiati anche i migranti climatici.
La Convenzione dell'OUA e la Dichiarazione di Cartagena
- Nello specifico la Convenzione dell'OUA, all'articolo 1(2), assicura lo status di rifugiato a "qualsiasi persona che, a causa di eventi che disturbano seriamente l'ordine pubblico in parti o nell'intero Paese di sua provenienza, sia costretta ad abbandonare il suo abituale luogo di residenza per cercare rifugio in un altro luogo, al di fuori del suo Paese di origine".
- La Dichiarazione di Cartagena, invece, al terzo punto delle conclusioni, raccomanda di includere tra i rifugiati "le persone che sono fuggite dal loro Paese perché le loro vite, la loro sicurezza o libertà è stata minacciata da altre circostanze che hanno seriamente minacciato l'ordine pubblico".
Nessuna delle due, quindi, parla esplicitamente di cambiamento climatico. Ci si riferisce più generalmente a eventi o circostanze che hanno minacciato l'ordine pubblico. Nella loro concreta applicazione, però, specialmente nel caso dei disastri ambientali, sono stati inclusi gli effetti del cambiamento climatico tra gli elementi che hanno minato all'ordine pubblico, riconoscendo così protezione ai migranti ambientali.
I migranti climatici sono rifugiati
Le persone in fuga dalla propria terra a causa del cambiamento climatico sono destinate ad aumentare. Un fatto con cui prima o poi il diritto internazionale dovrà misurarsi, riconoscendo come il climate change possa rappresentare una minaccia al godimento dei più basilari diritti umani. La Convenzione sui rifugiati dell'OUA e la Dichiarazione di Cartagena sono l'esempio di come due regioni hanno saputo adattarsi alle sfide del tempo, ma in futuro sarà necessario garantire la stessa protezione a tutti i migranti climatici.
Non per forze servono nuove norme. Ciò che è necessario è il pieno riconoscimento di come il cambiamento climatico possa mettere a rischio il pieno godimento dei diritti umani, ad esempio limitando l'accesso a cibo e risorse naturali o al controllo del territorio. Tutto ciò potrebbe poi tradursi in una minaccia per l'integrità fisica delle persone e a un adeguato standard di vita, che garantisca disponibilità di acqua, alimenti, salute. Tutti elementi che contribuiscono poi a far aumentare le tensioni politiche, sociali ed economiche. Che, a loro volta, potrebbero risultare in conflitti, violenza e persecuzioni, soprattutto in presenza di governi e istituzioni indebolite.
Il principio di non-refoulement, cioè di non-respingimento, sancito dalla Convenzione di Ginevra, vieta di riportare una persona nel luogo dove questa è a rischio persecuzione. Una condizione che può essere scatenata anche dal cambiamento climatico. Senza contare che anche l'articolo 6, sul diritto alla vita, e l'articolo 7, contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti, della Convenzione sui Diritti civili e politici impongano la protezione di coloro che rischiano di subire danni fisici o sono comunque in serio pericolo.
Insomma, già oggi i migranti climatici avrebbero pieno diritto a chiedere la protezione internazionale e a vedersi riconoscere lo status di rifugiato. Ed è ora di prenderne atto.