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Presidenza Trump

Perché i “dazi autoimposti” dell’Ue sono un’invenzione di Salvini e Meloni, spiegato da un esperto

La risposta europea ai dazi di Donald Trump è iniziata: i controdazi ufficializzati ieri sono la prima reazione dell’Ue. In Italia si parla di un piano per le imprese, ma molti nel governo Meloni continuano a dire che in Europa ci sono “dazi autoimposti” che sarebbero più urgenti da affrontare. Fanpage.it ha intervistato l’economista Marco Sanfilippo per chiarire la situazione.
Intervista a Marco Sanfilippo
Professore ordinario di Economia all'Università degli studi di Torino
A cura di Luca Pons
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Diventa sempre più complessa la questione dei dazi statunitensi. Ieri l'Unione europea ha dato ufficialmente il via libera ai primi controdazi, che ha rimandato di novanta giorni dopo la  sospensione annunciata da Trump ieri sera. Nel frattempo, l'escalation con la Cina continua, con dazi al 125%. In Italia, il governo Meloni ha annunciato alcune misure per le imprese e invita alla calma. Negli ultimi giorni però molti, soprattutto nella Lega e in Fratelli d'Italia, hanno iniziato a parlare di presunti "dazi autoimposti" in Europa, che sarebbero una questione anche più urgente da affrontare rispetto alle tariffe statunitensi.

Per fare chiarezza, Fanpage.it ha fatto alcune domande a Marco Sanfilippo, professore ordinario di Economia all'Università di Torino. L'economista ha spiegato quali saranno le conseguenze delle contromisure europee, e ha smentito il governo Meloni per quanto riguarda i "dazi autoimposti".

Giorgia Meloni e Matteo Salvini, come altri esponenti del governo, hanno detto che i dazi di Trump sono dannosi ma la vera minaccia sono i "dazi autoimposti" nell'Unione europea: le norme sul clima come il Green New Deal, le regolamentazioni… Hanno ragione, sul piano economico, o è solo un modo per rovesciare la questione e dare la colpa all'Europa?

No, non hanno ragione. Quelli non sono dazi, sono risultati di una politica industriale ragionata a livello europeo che ha un obiettivo di lungo periodo, ovvero trasformare la struttura produttiva dei Paesi Ue e indirizzarla verso tecnologie più sostenibili. Sono misure di supporto alle imprese, di cui l'Unione europea si fa carico, per incentivare le aziende che altrimenti non avrebbero potuto o voluto fare alcuni tipi di investimenti di conversione.

Non c'è evidenza che le misure del Green New Deal o del Pnrr abbiano portato una distorsione dei prezzi per i consumatori, oppure un aggravio dei costi per i produttori, e anzi lo scopo è proprio supportare i costi di transizione. Una volta completato il piano di investimento del Green New Deal, sia le imprese che la collettività avranno dei benefici. Quindi non lo equiparerei in nessun modo a dei dazi, che invece sono delle tasse vere e proprie.

Non faccio valutazioni politiche, ma è chiaro che questa associazione viene usata per mostrare anche a Trump che in certe parti politiche resta una posizione critica nei confronti dell'Europa. Il ragionamento, però, dal punto di vista economico non regge.

L'espressione "dazi autoimposti" è presa da Mario Draghi, che però si riferiva alle barriere fiscali tra Paesi e alla mancanza di una politica fiscale e industriale più condivisa nell'Ue. La Lega in una recente mozione ha invece inserito tra i "dazi impliciti alle nostre imprese"anche la messa al bando dei motori Euro 5. 

Anche in quel caso vale lo stesso discorso. Lì il problema è che noi come sistema produttivo siamo arrivati tardi su alcune rivoluzioni tecnologiche, quella più evidente è quella dei motori a scoppio contro quelli elettrici. Quindi non siamo competitivi, ma rispetto alla Cina, non agli Usa, quindi peraltro si parla di un setting del tutto diverso.

Immaginare di estendere i tempi e tenere in vita i motori termici per qualche anno non risolve il problema. Potrà aiutare a sostenere il settore per pochi anni, ma non per molto, visto l'orientamento del mercato verso produzioni a impatto zero. Anche quello è un ragionamento che difficilmente sta in piedi.

Passando ai dazi veri e propri: l'Unione europea ha risposto agli Stati Uniti con i primi controdazi (l'intervista è avvenuta prima della sospensione dell'Ue, ndr). Che effetti hanno i controdazi?

Nel momento in cui l'Europa inizia ad applicare dazi nei confronti delle importazioni negli Stati Uniti succedono due cose. La prima è che i prodotti americani che consumiamo inizieranno a costarci di più. Avremo un effetto diretto anche sui consumatori europei, che fino a oggi erano stati quasi immuni, dato che il carico dei dazi degli Usa verso l'Europa colpiva perlopiù i produttori. Certo, politicamente i controdazi sono un segnale che l'Unione Europea non è debole e ha la capacità di rispondere. Ma dal punto di vista economico non è ideale.

In generale come dovrebbe muoversi l'Europa, che ha proposto un regime di "zero per zero", cancellando tutti i rispettivi dazi?

Idealmente, l'approccio "zero per zero" è il migliore: ci porterebbe allo status quo precedente a Trump. Anzi, un po' meglio, visto che prima esistevano delle tariffe bilaterali tra Stati Uniti e l'Europa, anche se erano molto basse, tra il 3% e il 4% considerando tutti i prodotti (con alcune eccezioni come le auto, dove l'imposta europea era più alta).

Se questa ipotesi viene bocciata dall'amministrazione Usa, l'Europa ha diverse opzioni. La prima è continuare a mettere ulteriori tariffe sulle importazioni dagli Stati Uniti – anche se i primi due prodotti che l'Italia importa dagli Usa sono petrolio e gas liquido naturale, che avrebbero un effetto immediato sul costo della vita di famiglie e imprese nel nostro Paese. La seconda è fare l'opposto, quello che vorrebbe Trump: fare ammenda e prendere un impegno formale ad acquistare più beni americani, riducendo questo famoso ‘deficit commerciale'. Ricordando sempre, però, che la questione del deficit è vera solo in parte.

Trump ha lamentato che gli Usa importano dall'Europa più di quanto l'Ue importa dagli Stati Uniti, cioè appunto che hanno un "deficit commerciale". Perché è vero solo in parte?

Perché riguarda soltanto i beni. Se guardiamo ai servizi è il contrario: l'Europa ha un deficit commerciale ampio nei confronti degli Stati Uniti. È ovvio se pensiamo a tutti i servizi che consumiamo, dalla PayTv ad Amazon, a molti dei programmi che abbiamo sul computer. Dove hanno sede le imprese che li producono? Sono per lo più americane.

L'Europa quindi potrebbe colpire questo settore, quello dei servizi, per danneggiare gli Usa?

Non è così facile applicare tariffe ai servizi perché, a differenza dei beni, non devono necessariamente attraversare delle dogane. Le aziende che li producono sono facilmente spostabili da un Paese all'altro. Ma ci sono altre misure per arrivare al risultato: la famosa digital tax, qualcosa che colpisca la proprietà intellettuale; oppure una riforma per far pagare le tasse alle aziende in base ai Paesi in cui vengono consumati i loro servizi, e non a dove l'impresa ha la sede legale. In sostanza, far pagare di più alle grandi multinazionali del settore tecnologico.

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