Perché gli stipendi rischiano di crollare a gennaio e cosa c’entra il governo Meloni
Il conto alla rovescia è già cominciato. Alla fine dell'anno mancano poco più di quattro mesi, tempo che il governo dovrà impiegare per scrivere la legge di Bilancio e soprattutto per trovare le risorse per finanziarla. I soldi sono pochi e le preoccupazioni molte, anche quest'anno. Tanto che nella maggioranza nessuno nasconde il fatto che sarà un'ennesima manovra votata all'attenzione e alla cautela. Il nodo più importante che verrà al pettine a dicembre, però, è quello del taglio del cuneo fiscale: nel corso dell'anno il governo ha applicato prima uno sconto del 2/3%, poi salito al 6/7% per i redditi fino a 35mila euro. Se non si trovano i fondi per confermarlo – e non sono pochi – le buste paga di gennaio rischiano di essere sprovviste di quei cento euro in più sbandierati a più riprese dall'esecutivo.
La manovra dovrebbe valere tra i 25 e i 30 miliardi e, conti alla mano, per rifinanziare tutto il taglio attivo al momento ne servirebbero 15 lordi. Difficile trovare le risorse, impossibile pensare di investirle quasi interamente sullo sconto contributivo. Il governo, però, vuole e deve evitare a tutti costi di ripetere l'esperienza delle accise. Lo scorso gennaio è stato segnato dall'aumento dei carburanti causato dal mancato rinnovo del taglio, che Meloni e i suoi ministri hanno provato a coprire accusando i benzinai di poca trasparenza e finendo per aprire uno scontro con la categoria terminato con l'obbligo – inutile, ovviamente – di esporre il cartello con i prezzi medi. Il 2024 sarà l'anno delle elezioni europee, e il centrodestra non ha alcun interesse a cominciarlo facendo arrabbiare milioni di lavoratori dipendenti.
La soluzione potrebbe stare nel mezzo. Il governo sta riflettendo su un rinnovo del taglio del cuneo, ma in misura minore rispetto a quello attuale, risultato della somma di due interventi (il primo nella scorsa legge di Bilancio, il secondo con il decreto Lavoro). Si parla di uno sconto del 5% fino a 35mila euro, mentre attualmente arriva al 6%, con il 7% fino ai 25mila. Questo vorrebbe dire, per i lavoratori, perdere circa un terzo del beneficio accumulato finora, che vorrebbe dire tra i 15 e i 35 euro circa a seconda del reddito. Anche in questa formula, il nuovo intervento non costerebbe meno di 8 miliardi. Un terzo della manovra.
Per evitare di far infuriare gli oltre dieci milioni di lavoratori interessati dal taglio, però, in soccorso di Meloni arriva il viceministro Leo, che sta lavorando alla riforma fiscale. L'obiettivo è evitare lo scalino con la rimodulazione delle aliquote Irpef – che passeranno da quattro a tre – e lasciare il netto in busta paga più o meno invariato. Non è semplice, ma il governo ha il dovere di provarci. Anche per evitare di tradire un'altra promessa, dopo quella delle accise, e lasciare intatti gli stipendi netti.