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Opinioni

Perché gli italiani non scendono in piazza?

Non è vero che gli italiani non scendono in piazza. Ma è vero che le manifestazioni, ormai, hanno perso ogni rilevanza politica. Come è potuto succedere?
A cura di Michele Azzu
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Quante volte l’avete sentito dire: “In Spagna scendono in piazza a protestare e in Italia non succede mai nulla”. Oppure: “In Francia se qualcosa non funziona manifestano in migliaia”. È un luogo comune, certo, eppure negli ultimi giorni sono tornato a ripetermi questa domanda: perché gli italiani non scendono in piazza?

Perché i recenti decreti del Jobs Act  che hanno dato alle aziende libertà di licenziare, senza risolvere il problema dei precari, non hanno portato in piazza gli italiani? Eppure, poco lontano da noi, in Spagna, centomila persone si sono radunate alla Puerta del Sol di Madrid – la piazza occupata dagli indignados nel 2011 – per manifestare con Podemos, il movimento politico contro l’austerity, nato proprio dagli Indignados, che gli ultimi sondaggi danno in crescita. In Grecia, invece, il premier Alexis Tsipras sta conducendo un braccio di ferro con l'UE sul debito.

E nella ricca Inghilterra? Pochi giorni fa 5.000 persone hanno manifestato a Londra per l’emergenza case della capitale. Affitti e immobili in vendita sono ormai un sogno irraggiungibile per i giovani, e le vecchie case popolari vengono vendute senza garanzie per chi dovrebbe usufruirne. Qui il Green Party (partito dei Verdi), che era in piazza coi manifestanti, cresce nei sondaggi forte delle rivendicazioni sociali abbandonate dai partiti di maggioranza.

Politiche dell’austerity, effetti della crisi: e in Italia? Sembrano lontanissimi gli anni delle maschere di Guy Fawkes, dei richiami a Occupy Wall Street e agli indignados. Ma in realtà, a ben guardare, non abbiamo nulla da invidiare alle manifestazioni dei vicini europei. Quando nel 2010 ci fu lo sciopero generale in Spagna, contro la riforma del lavoro del governo Aznar, era la prima volta che accadeva dopo 7 anni. Abbiamo già dimenticato che lo scorso 25 ottobre la Cgil ha portato in piazza a Roma circa un milione di persone contro il Jobs Act di Matteo Renzi?

In Italia accade almeno una volta l’anno: nel 2013 era il 18 ottobre dei movimenti e sindacati di base, nel 2012 il 14 novembre della manifestazione europea contro l’austerity, nel 2011 il 15 ottobre degli indignati, nel 2010 il 14 dicembre degli scontri a Roma con movimenti e studenti. Il 5 dicembre 2009 il “No B Day” del popolo viola che chiedeva le dimissioni di Berlusconi. E tante, impossibili da contare le manifestazioni minori, gli scioperi, le marce, le occupazioni, anche in questi giorni.

Non è vero che gli italiani non scendono in piazza, anzi, è vero il contrario. Il problema è che la maggior parte di queste manifestazioni sembrano finire poi nel nulla, che i promotori siano istituzionali come i sindacati, o che siano organizzate dai movimenti. A prescindere anche dal governo in carica: Monti, Berlusconi, Letta, Renzi. Perché le manifestazioni sembrano aver perso così tanto peso nel nostro paese? Perché mentre in Spagna e in Grecia, addirittura in Inghilterra, è possibile tracciare un percorso dai movimenti indignati del 2011 fino ai nuovi protagonisti della politica, da noi sembra tutto così confuso?

Forse stiamo facendo la domanda sbagliata. Non dobbiamo chiederci perché gli italiani non scendono più in piazza, questo non è vero. La domanda vera è: perché i politici non ascoltano la piazza? Cosa è venuto a mancare nel legame tra malcontento sociale e risposta politica? (Con l’eccezione del Movimento 5 Stelle, anche se con dinamiche differenti rispetto al resto d’Europa).

Sono passati solo 4 anni dalle manifestazioni degli indignati ed Occupy ma è avvenuto un passaggio storico: la fine del bipolarismo. Se fino al 2010 era facile identificarsi in uno schieramento o quello opposto, con Berlusconi al governo, oggi questo non è più possibile. I programmi dei partiti maggioritari di destra e sinistra sono spesso indistinguibili, Matteo Renzi ha finora governato grazie ad un patto con Berlusconi, e c’è un terzo partito di maggioranza, il M5S, che non è di destra o di sinistra. Il legame tra la piazza e partito di riferimento si è spezzato qui.

Poi è arrivata la stagione dei governi tecnici: Mario Monti, Matteo Renzi, Enrico Letta, nessuno di loro è stato eletto. Certo, il Pd ha vinto le elezioni del febbraio 2013 – con poco meno di 280.000 voti di differenza sul Popolo delle Libertà di Berlusconi – ma il candidato era Pierluigi Bersani, e il programma di governo molto diverso da quello di Matteo Renzi (C’era la risoluzione degli esodati, il falso in bilancio, non c’era il Jobs Act). Tre governi consecutivi che non rispondono direttamente al voto degli elettori, anche questo ha lasciato il segno.

Poi, i dati preoccupanti sulla fiducia dei cittadini verso le istituzioni – ben rappresentato dal rapporto Demos 2014 – sempre più bassa (fatta eccezione per il Papa). Il Capo dello Stato perde dal 2010 ad oggi il 27% di fiducia, le Regioni il 14%, lo Stato il 15%. E parlando di sfiducia non possiamo dimenticare i recenti flop di affluenza alle urne: alle elezioni europee (il 58.7% rispetto al 66.3% del 2009), alle primarie del Pd, alle regionali in Calabria ed Emilia Romagna (rispettivamente con un affluenza del 44% e del 37%). Gli italiani sembrano non avere più alcuna fiducia nella politica, nelle istituzioni, nella classe dirigente. E nel diritto di voto.

Anche i media mainstream hanno giocato un ruolo fondamentale nel privare di rilevanza le manifestazioni e le proteste. È un’informazione sempre più lottizzata, contorta, legata a doppio filo con la politica, quella del nostro paese. E le manifestazioni sono spesso presentate in maniera strumentale, quando non volutamente ignorate. Il nuovo rapporto di Reporter Senza Frontiere indica l'Italia al 73° posto nella classifica mondiale per la libertà di stampa, 24 posizioni più in basso rispetto all'anno precedente (soprattutto per intimidazioni criminali e cause di diffamazione). Anche questo conta, perché se la protesta non entra nell’agenda media la politica non è obbligata a rispondere.

Fine del bipolarismo, governi non eletti, divario crescente tra società civile e politica, media non indipendenti: sono forse questi alcuni dei passaggi che hanno portato le piazze italiane a perdere di rilevanza politica. Ma cose simili sono avvenute in tutta Europa. Allora perché da noi è diverso, perché gli italiani non scendono in piazza a protestare ancora di più?

Perché non cambierebbe nulla. Perché siamo un paese diviso, corporativo, in lotta e corrotto fino alle fondamenta. Perché tanti giovani che pochi anni fa hanno provato a scendere in piazza coi social forum sono stati sottoposti a tortura in seguito al G8 di Genova. Perché siamo un paese in cui la politica ormai vive di vita propria, staccata dalla società, e i movimenti che nascono dal basso vengono cannibalizzati in fretta. Perché le manifestazioni vengono continuamente abusate per scopi che con la protesta non hanno niente a che fare. Perché se anche gli italiani scendono in piazza, non trovano nessuno ad aspettarli.

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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