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Opinioni

Perché Giorgia Meloni non ha nulla da temere dal “cantiere aperto” nel centrosinistra

Il Partito democratico verso un congresso che lo cambierà per sempre, Azione e Italia Viva continuano nel percorso di costruzione della casa centrista, la Lega alla resa dei conti su Salvini, il Movimento cerca di diventare partito: è tempo di ricostruzione per la politica italiana. Con la consapevolezza di dover fare i conti con l’accelerazione imposta alla destra italiana dalla presenza di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi.
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Giorgia Meloni è a Palazzo Chigi con pieno merito, ha il controllo della sua maggioranza, una discreta influenza sui media e il favore dell’opinione pubblica. Se è vero che le recenti parabole di Renzi e Salvini testimoniano di come sia mutevole il giudizio dei cittadini sui leader, al tempo stesso non vi è ragione di ipotizzare che la reggenza della leader di Fratelli d’Italia possa essere breve. Anzi, la sua vittoria elettorale ha finito col catalizzare una serie di trasformazioni (probabilmente già in atto) del quadro politico nazionale, portando alla luce contraddizioni e limiti di partiti e leader.

L’opposizione è nei fatti un cantiere aperto, anche se va detto che una certa irrequietezza è riscontrabile anche all’interno della maggioranza che sostiene il governo. Il Partito democratico è uscito con le ossa rotte dalla competizione elettorale. O meglio: il risultato delle politiche e i riscontri dei successivi sondaggi sono stati la conferma di una crisi profonda del partito, che coinvolge ogni sua componente (classe dirigente, riferimenti sui territori e struttura organizzativa interna) e che secondo alcuni è finanche irreversibile. Letta, che aveva preso le redini del Pd dopo il controverso passo indietro di Zingaretti (che pure era partito con un ampio programma di riforma interno), ha finito con il pagare assieme lo scotto di colpe non sue e di errori strategici della sua gestione. La conduzione della campagna elettorale è stata quasi una dimostrazione di impotenza e di incapacità di trovare una risposta alla domanda base: perché un elettore dovrebbe votare il Pd?

Proveranno a rispondere i candidati e le candidate alla segreteria, in quella che si annuncia come una partita complessa e destinata ad avere conseguenze importanti sullo scenario politico italiano. Gli iscritti e i militanti del Pd saranno chiamati a scegliere non solo un nome, ma anche la collocazione presente e futura del partito. Ci sono differenze profonde tra la piattaforma del tandem Bonaccini – Nardella e quella di Schlein, per cominciare, ma sarà molto interessante capire anche come andranno a riposizionarsi i big della dirigenza attuale. Non c’è solo una campagna da vincere, c’è un partito da ripensare, ammesso che sia possibile. In questo senso, probabilmente l’unico elemento di chiarezza arriva dall’abbandono definitivo della vocazione maggioritaria: il Pd non esiste se non in quanto “parte di un campo”, se non come tassello di uno schieramento. È una consapevolezza che viene dai sondaggi e dai riscontri elettorali, prima di tutto; ma è anche una resa alla logica della stampella, che ha portato i democratici a spendersi in ogni tipo di compromesso per mantenere oppure ottenere posizioni di potere all’interno delle istituzioni. Chiunque vincerà, insomma, si guarderà intorno, per scelta, per necessità o come naturale conseguenza della piattaforma politico – ideologica che proporrà al Paese e soprattutto ai propri militanti.

Tale situazione rimanda evidentemente a una certa subalternità del Pd, costretto a subire processi già avviati. Quello della costruzione della casa centrista e liberale, ad esempio. Calenda e Renzi, che daranno vita a una federazione (e forse a un partito unico), hanno le idee piuttosto chiare: costruire e occupare uno spazio in cui possano riconoscersi elettori moderati o comunque in cerca di collocazione, aumentare il proprio peso politico in modo da poter essere determinanti per le posizioni di governo, provando poi a condizionarne l’azione. Secondo alcuni analisti, il Terzo Polo può guardare con serenità a quello che accadrà in casa Pd: nel caso in cui vincesse Bonaccini sarebbe un interlocutore naturale, se toccasse a Schlein o comunque a candidati con impostazioni più radicali, invece, potremmo assistere a uno spostamento sensibile di elettori e dirigenti verso la creatura di Renzi e Calenda. È un ragionamento interessante, ma che probabilmente non considera la resilienza dell’elettorato democratico, che difficilmente premia scissioni o segue in massa i propri leader di riferimento che abbandonano la “ditta” (lo testimoniano, seppure in modi e tempi diversi, le vicende di Renzi, ma anche degli stessi Bersani e Civati).

Malgrado le apparenze, neanche il Movimento 5 stelle vive un momento sereno sul piano interno: il processo costituente ha subito più di un rallentamento e il ridimensionamento della pattuglia parlamentare ha anche impoverito la capacità di azione e analisi politica (pesano i tagli al personale dei gruppi parlamentari). Paradossalmente, però, questa situazione ha portato anche dei benefici, poiché ha reso meno ingessata la leadership e garantito a Giuseppe Conte molta libertà di movimento. L'ex presidente del Consiglio ha proseguito di fatto il percorso cominciato in campagna elettorale, posizionando il partito in modo molto chiaro su temi di grande impatto, reddito di cittadinanza e ambiente su tutti. La stessa linea di (apparente) chiusura nei confronti del Partito democratico, se indebolisce l'opposizione a Meloni, rende i grillini attraenti su un certo tipo di elettorato. La collocazione del M5s di Conte, al di là delle tante contraddizioni di linea e pratica politica, è da valutare con grande attenzione, perché mira a occupare lo spazio in cui da sempre sono egemoni le forze di sinistra e al contempo quello di più recente formazione, che banalmente si identifica come "populista".

È una linea concorrenziale a quella della sinistra ecologista italiana, che pure attraversa un periodo complicatissimo. Il caso Soumahoro (che rimanda all'atavico problema di selezione delle candidature a sinistra) ha di fatto paralizzato la formazione di Bonelli e Fratoianni: l'ex sindacalista dei braccianti si era conquistato un posto di primo piano nella tribuna di opposizione a Meloni, essendo uno dei pochi a riuscire a ribaltarne la narrazione. È finita come sappiamo, l'ennesimo crollo in un muro da ricostruire da capo. Ci vorrà tempo, a sinistra è il momento di incassare e sperare che il centrodestra imploda nelle sue contraddizioni. Nel frattempo, Meloni andrà sul velluto in Lombardia e forse riprenderà il Lazio.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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