Perché Gianfranco Fini è stato condannato per riciclaggio: “Contribuì a vendere casa di Montecarlo”
Gianfranco Fini "forni il proprio contributo nell'operazione di riciclaggio" collegata ai pagamenti per "l'acquisto dell'appartamento di Montecarlo". A scriverlo sono i giudici del Tribunale di Roma, nelle motivazioni della sentenza che il 30 aprile ha condannato l'ex presidente della Camera a 2 anni e 8 mesi di carcere in primo grado. Era arrivata una condanna anche per la compagna di Fini, Elisabetta Tulliani (cinque anni di reclusione), il fratello di lei Giancarlo Tulliani (sei anni) e il padre Sergio (cinque anni).
Il processo riguarda la compravendita di una casa a Montecarlo: l'immobile era stato lasciato in eredità dalla contessa Annamaria Colleoni ad Alleanza nazionale, e nel 2008 sarebbe stato acquistato da Giancarlo Tulliani tramite una società off-shore. Il prezzo: poco più di 300mila euro. Appena sette anni dopo, nel 2015, l'appartamento venne venduto a 1 milione e 360mila euro.
I giudici: "Fini coinvolto, gestì personalmente trattative"
Il contributo di Fini "risulta provato", si legge, e sarebbe consistito "nell'aver autorizzato la vendita" della casa di Montecarlo proposta da Tuliani, "nella consapevolezza dell'incongruità del prezzo rispetto al valore di mercato e a favore della società offshore dei congiunti". Insomma, Fini – che fino a maggio 2008 era presidente di Alleanza nazionale, e dall'aprile di quell'anno presidente della Camera – sapeva che si trattava di un prezzo troppo basso, ma avrebbe dato il via libera alla vendita ugualmente.
Lo stesso Fini "nel 2008 si adoperò per introdurre il ‘cognato’ in ambienti dai quali potesse trarre fonti di guadagno", dato che Giancarlo Tulliani "era privo di un solido profilo professionale e le società che a lui facevano capo […], compresa la Wind Rose srl presieduta dal padre Sergio Tulliani, non erano più attive o erano state volontariamente liquidate".
Sempre in quel periodo, "su insistenza di Giancarlo Tulliani e della sorella", Fini decise di vendere l'appartamento "che il partito aveva ricevuto in eredità", nonostante Alleanza nazionale avesse deciso diversamente. Questo avvenne "per le insistenze dei due fratelli, come precisato dallo stesso Fini". Dunque "Fini autorizzò la vendita della casa" proprio perché "il ‘cognato’ era interessato all'acquisto". Non solo, ma il l'ex presidente della Camera "gestì personalmente le trattative fissando il prezzo in 300mila euro".
Un coinvolgimento chiaro, quindi, dovuto al fatto che "era ben consapevole che il ‘cognato’ aveva un forte interesse nell'affare". La condanna del Tribunale è stata comunque molto più bassa di quella richiesta dalla Procura (otto anni di carcere) perché non sono emerse prove che il contributo di Fini fosse consistito anche nello "stringere intesa con Francesco Corallo e nel favorire l'instaurazione e la prosecuzione di rapporti finanziari tra costui ed i membri della famiglia Tulliani".
Gli avvocati di Fini: "Non ha avuto profitti, dimostreremo in appello che non sapeva"
Dopo la condanna, l'ex leader di Alleanza nazionale aveva dichiarato: "Non sono deluso: non sono stato ritenuto responsabile di riciclaggio, evidentemente l'unica cosa che ha impedito di assolvermi è l'autorizzazione alla vendita dell'appartamento. Quando ho dato l'ok non sapevo chi fosse l'acquirente". Oggi la sua difesa ha insistito: "La sentenza di fatto assolve Fini su tutti i capi di imputazione", hanno affermato gli avvocati Francesco Caroleo Grimaldi e Michele Sarno.
La sentenza, secondo i legali, "si limita, paradossalmente, a ricorrere al concetto del dolo eventuale, che tradotto altro non è che il ben poco apprezzabile ‘non poteva non sapere'. Abbiamo già dimostrato in primo grado che era vero l'esatto contrario ossia che ‘non poteva sapere nulla' e confidiamo nell'appello, anche perché lo stesso tribunale afferma a chiare note che nessun profitto è stato tratto da Gianfranco Fini da tutte queste operazioni finanziarie".