Una società così indifferente alla morte e alla distruzione ha già perso la guerra. È questo il titolo di un editoriale pubblicato qualche tempo fa da Haaretz, come amara fotografia della società israeliana, scioccata dalla barbarie del 7 ottobre e lacerata dalla risposta cinica e crudele del governo Nethanyau. Ma indifferenza e assuefazione riguardano anche l’opinione pubblica occidentale, dopo mesi di guerra e di copertura non sempre lucidissima da parte dei media. Non si tratta di un fenomeno nuovo, ne abbiamo un esempio recentissimo con la guerra in Ucraina, con la news fatigue che non solo ha fatto scivolare in basso nei notiziari gli aggiornamenti sul conflitto, ma ha anche determinato una lenta e graduale rivalutazione delle ragioni e finanche della genesi dell’invasione russa. È un meccanismo rodato, che la politica prova spesso a sfruttare, specie in situazioni in cui si rivela incapace di decidere e incidere nei processi. Di solito funziona e lentamente i conflitti escono dall'agenda pubblica, diventano quasi un rumore di fondo.
Su Gaza le cose sembravano poter andare diversamente, per una serie di ragioni. L’entità della distruzione operata dall’esercito israeliano a Gaza ha pochi eguali nella storia recente. Le forze di Tel Aviv hanno raso al suolo quasi tutte le zone abitate della Striscia, seminando morte e distruzione per mesi; ai civili palestinesi è stato imposto di raggiungere “zone sicure” a sud, per poi ritrovarsi comunque sotto le bombe; IDF ha colpito ospedali e convogli umanitari, ha ucciso donne e bambini, ha ostacolato soccorritori e giornalisti. Le immagini della distruzione hanno provocato sdegno e impressione, cancellando definitivamente la narrazione dell’esercito “più morale al mondo”. La forza delle immagini e dei racconti da Gaza è stata per molto tempo l’unico argine al tentativo di completa deumanizzazione dei palestinesi, portato avanti dai leader israeliani con dichiarazioni che ruotavano intorno alla sovrapposizione costante fra Hamas e Palestina, fra miliziani e civili, fra terroristi e arabi.
In questo senso, ALL EYES ON RAFAH è stata ben più di una card di successo sui social. È stata il manifesto di una mobilitazione preesistente, che ha visto in prima fila studenti, società civile e semplici cittadini, e che per mesi ha cercato di spingere le coscienze ad andare oltre l'analisi post 7 ottobre. Il punto è questo: mesi di bombardamenti, di uccisioni a sangue freddo, di atti che il procuratore generale della Corte penale internazionale definisce "crimini contro l'umanità", non possono beneficiare dell'ombrello giustificazionista della "reazione al 7 ottobre", della "lotta ai terroristi di Hamas", della "liberazione della Palestina dai fondamentalisti". Le esecrabili azioni dei miliziani islamisti, puntualmente elencate dalla stessa CPI, non giustificano la punizione collettiva che sta mettendo in atto IDF, con l'avallo del governo israeliano e di tanta parte della comunità internazionale.
È per questo che non si può assistere con rassegnazione al lento scomparire della questione Gaza dal dibattito pubblico. L'urgenza, la portata e la forza della mobilitazione dell'opinione pubblica nascono da queste considerazioni: la carneficina e la distruzione di Gaza vanno fermate ora, non possono e non devono diventare un rumore di fondo cui abituarsi.
A rendere la scala della devastazione basterebbero i numeri: quasi 39mila morti e circa 90mila feriti, secondo le stime dell’autorità che controlla Gaza; circa 14mila miliziani di Hamas uccisi o feriti, secondo i dati dell’esercito israeliano (in un comunicato in cui non sono menzionate le vittime civili); oltre 100 ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas, di cui non si conoscono le condizioni. Ma c’è anche la constatazione del fatto che siano saltati, e da tempo, tutti i limiti, con l’esercito israeliano che bombarda scuole e ospedali, che non risparmia operatori sanitari e dell’informazione e che colpisce le stesse safe zone che aveva precedentemente indicato.
Per mesi abbiamo discusso preoccupati dell’escalation eventuale del conflitto, ora fatichiamo a immaginare cos’altro possa ancora accadere. Ci sono centinaia di migliaia di persone costrette a spostarsi per sfuggire alle bombe, “come in un flipper”, per citare il segretario generale dell’ONU; le incursioni dell’esercito per colpire capi o miliziani di Hamas determinano ogni volta decine di morti civili (e no, non può bastare ripetere all’infinito che “si nascondono nei campi profughi e usano i bambini come scudi umani”); Gaza sta fronteggiando una crisi umanitaria senza precedenti, ha la quasi totalità delle infrastrutture distrutte e ci vorranno anni e miliardi di dollari per la ricostruzione; le autorità israeliane non mostrano più alcuna remora a colpire le sedi dell’UNRWA, ospedali, scuole e mercati.
E c’è il dato politico in senso stretto, che parla di un’incapacità diffusa di trovare una via d’uscita. Il governo Nethanyau continua a parlare di svolte imminenti, mentre l'intera area mediorientale è in fiamme e si moltiplicano i raid all'esterno del territorio israeliano (Libano e Yemen). Mentre cresce il timore di un allargamento ulteriore del conflitto su scala regionale (specie dopo l’azione Houthi a Tel Aviv), la comunità internazionale è sempre più spaccata e incapace di agire concretamente per limitare le azioni del governo israeliano. L’impressione è quella di un forzato stand by fino a novembre, quando le presidenziali americane potrebbero rivoluzionare il quadro geopolitico internazionale (non sfuggirà il tentativo di Trump di addossare l’intera colpa del disastro di Gaza all’amministrazione Biden).
Nel frattempo, la Corte di Giustizia Internazionale ha condannato l’occupazione israeliana nella West Bank e a Gerusalemme Est, chiedendo l’immediata evacuazione degli insediamenti illegali. Ma non solo, perché l’ICJ ha parlato di “discriminazione sistematica, segregazione e apartheid” in Cisgiordania, ribadendo di considerare Gaza “effettivamente occupata da Israele”, nonostante il ritiro dalla Striscia del 2005. Decisione contestata da Nethanyau, che ormai ha sdoganato completamente l'idea che IDF possa colpire ovunque e chiunque, a prescindere dalle vittime civili e dalle conseguenze, purché si tratti di fare "passi avanti" contro Hamas.
È un vicolo cieco, in gran parte determinato dalle scelte del governo di Tel Aviv, lo notano da tempo anche osservatori israeliani indipendenti. Che ha prodotto una certa assuefazione nell'opinione pubblica internazionale, con la normalizzazione delle notizie più aberranti di un conflitto che ha prodotto decine di migliaia di morti e conseguenze che ancora non siamo in grado di valutare.