Perché è il momento che l’Italia smetta di dare motovedette alla Tunisia
Le sei motovedette che l'Italia avrebbe dovuto inviare alla Tunisia erano parte dell'accordo stretto da Giorgia Meloni con Kais Saied per rafforzare la cooperazione tra i due Paesi, in particolare per quanto riguarda i flussi migratori. Il Consiglio di Stato, però, ha accolto il ricorso presentato da sette associazioni – secondo cui fornire questi mezzi alle autorità tunisine avrebbe significato esporre le persone migranti a un maggiore rischio di respingimenti, deportazioni illegali e violazioni dei diritti umani – sospendendone di fatto l'invio. "Questo innanzitutto è un segnale. Il Consiglio di Stato ha preso molto seriamente la possibilità che il danno del provvedimento, che noi riteniamo illegittimo, si producesse nel momento in cui le motovedette dovessero essere trasferite", ha commentato con Fanpage.it Cristina Cecchini, del pool di avvocate che ha seguito il caso e parte dell'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione (Asgi).
"Il Consiglio di Stato ha evidenziato che fosse molto importante fare una valutazione più approfondita. Quando viene accolta una cautelare si sottintende che ci sia un margine di ragionevolezza nelle argomentazioni prospettate. Quindi, in questo caso, speriamo che il Consiglio di Stato faccia un lavoro molto più approfondito di quello che ha fatto il Tar", ha proseguito l'avvocata. Le sette associazioni, infatti, si erano prima rivolte al Tar del Lazio, che però non aveva accolto il ricorso affermando che l'accordo per il trasferimento delle motovedette fosse legittimo. "È molto contraddittoria la decisione del Tar – ha spiegato Cecchini – perché ammetteva che ci fossero dei possibili profili di pericolosità in Tunisia – su cui fosse necessario monitorare – ma citava la collaborazione con le autorità dal 2015, senza dare atto quindi del netto cambiamento che c'è stato nell'ultimo anno, e la conferma che la Tunisia fosse considerata un Paese sicuro dal nuovo decreto del governo".
"La Tunisia non può essere considerata un Paese sicuro"
Si tratta di un punto centrale. Lo scorso 7 maggio nel suo ultimo aggiornamento sulla lista dei Paesi di origine sicuri – fondamentale nella gestione delle richieste di protezione internazionale – il governo aveva confermato la Tunisia nell'elenco, ma secondo diverse organizzazioni che si occupano di diritti umani (nonché parlamentari dell'opposizione che si sono recati in missione nel Paese) non avrebbe tenuto conto del netto deterioramento delle condizioni interne. Saied è alla guida del Paese dal 2019: dal 2021 ha impresso una forte virata autoritaria, concentrando su dì sé i poteri e sospendendo l'attività del Parlamento. Diversi oppositori politici sono stati arrestati, così come numerosi attivisti per i diritti umani che denunciavano gli abusi e le violazioni ai danni contro, in particolare, i migranti subsahariani nel Paese.
Saied, in un discorso pubblico, ha accusato i migranti dei Paesi subsahariani di essere arrivati in Tunisia nel tentativo di minarne l'identità araba e musulmana, in un progetto di sostituzione etnica: da quel momento sono aumentati i soprusi verso i migranti, tra arresti per strada e deportazioni nel deserto, al confine con la Libia. In questo modo troppe persone hanno perso la vita.
"Il fatto che la Tunisia sia un Paese di origine sicuro è già una questione fortemente in discussione – ha commentato Cecchini – E comunque è un istituto che si applica sulle domande di asilo dei tunisini, non delle persone di altri Paesi, in particolare dell'Africa subsahariana, che sono quelle che maggiormente cercano di fuggire dalla Tunisia perché è diventato un Paese estremamente insicuro. Ad ogni modo questo istituto di Paese sicuro per la Tunisia viene già messo in discussione da moltissimi giudici interni che lo disapplicano, proprio perché anche per loro la Tunisia di oggi non può essere considerata un Paese sicuro".
Una nuova Libia: le violenze della Garde Nationale
Per l'avvocata il parallelismo con quanto fatto dal governo italiano con la Libia è palese: "Si sta chiedendo al governo tunisino di creare nel Paese una nuova Libia: in cambio di una fantomatica collaborazione sulle migrazioni dei tunisini si chiede un controllo e un blocco delle frontiere per le persone che fuggono dalla Tunisia. È lo stesso processo che è già stato fatto per la Libia: creare una zona Sar e fornire poi strumenti, come le motovedette, a prescindere dal fatto che le autorità tunisine siano o meno in grado di gestire una zona di Ricerca e Soccorso".
Un report pubblicato proprio ieri da Alarm Phone conferma ciò che già dicono diverse Ong, cioè che "la Garde Nationale tunisina, quella che dovrebbe ricevere le motovedette, nell'ultimo anno si è macchiata di crimini gravissimi contro i diritti umani, provocando naufragi, abbandonando le persone in mezzo al mare, picchiando e torturando i naufraghi esattamente come la cosiddetta Guardia costiera libica".
Nel documento sono state raccolte diverse testimonianze portare da diversi attori della società civile tunisina e transnazionale, che documentano le pratiche dei gendarmi tunisini nel Mediterraneo centrale: dalla mancata assistenza a manovre fatte intenzionalmente per far ribaltare le imbarcazioni in difficoltà, provocando veri e propri naufragi.
Questa brutalizzazione delle autorità di frontiera tunisine, documentata ormai da anni dalla società civile tunisina e transnazionale1 , si inserisce in un contesto di rafforzamento delle politiche di esternalizzazione delle frontiere dell'Unione Europea e dei suoi Stati membri. Di fronte all'aumento del traffico sulla rotta marittima tunisina a partire dal 2021 e nella speranza di limitare il numero di attraversamenti, l'UE ha aumentato notevolmente il suo sostegno alle forze di sicurezza tunisine, istituendo, come per la sua cooperazione con le milizie libiche, un "regime di respingimento per procura".
Per Cecchini "rischiamo di collaborare con un'altra autorità che viola massivamente i diritti umani".
Ora anche la Tunisia ha una zona Sar
Le similitudini con la Libia si sono viste anche nella nascita di una zona Sar tunisina, una zona di Ricerca e Soccorso in mare affidata proprio alla Garde Nationale. La notizia della formalizzazione è arrivata ieri: non è solo un passaggio tecnico, ma un rafforzamento delle politiche di esternalizzazione delle frontiere che i governi europei portano avanti ormai da anni.
"Il processo è lo stesso che abbiamo visto con la Libia – ha proseguito l'avvocata – Si crea questa macchina formale in cui si dice che la Tunisia ha una zona Sar, senza aver verificato se possa fare operazioni di Ricerca e Soccorso. Le mere intercettazioni in mare non possono essere considerate operazioni di Ricerca e Soccorso, quando la stessa vita dei naufraghi viene messa in pericolo da quelle autorità che le stanno svolgendo. E soprattutto un'attività di soccorso deve terminare con lo sbarco in un luogo sicuro: né la Libia né la Tunisia ad oggi possono essere considerate tali. Questo ormai viene confermato chiaramente dai giudici interni".
Fornire delle motovedette per il pattugliamento della zona Sar da parte della Garde Nationale rischia di aumentare il rischio di abusi e violazioni dei diritti documentate in questi anni. Cecchini ha concluso sottolineando come il rispetto dei diritti umani non possa essere un mero dettaglio, nel rapporto tra due Paesi. Dovrebbe essere la priorità: "Il Tar diceva che l'accordo era legittimo in quanto l'Italia si impegnava a collaborare in vista di un futuro miglioramento. Posto che gli atti non lo chiedono (non includono quella condizionalità – seppure generica e solo sulla carta – sul rispetto dei diritti umani che era inclusa con la Libia) comunque non è possibile fare una collaborazione con qualcuno che si impegna per il futuro al rispetto dei diritti umani: va verificato che oggi quei diritti sono garantiti".