C’è un filo sottile che unisce il Reddito di cittadinanza e Quota 100, le due misure cardine del governo Lega-Cinque Stelle, oggi oggetto di riflessione di Mario Draghi, che deve decidere se rifinanziare o meno. Entrambe sono bandiere identitarie di pezzi importanti della maggioranza di governo, il primo e il secondo partito per numero di parlamentari. Entrambe sono misure costose, 11 miliardi il Reddito e 13 miliardi Quota 100, calcolate su base triennale. Entrambe sono simboli di quella che da più parti è stata definita come la breve stagione populista italiana, durata lo spazio di un anno o poco più. Entrambe sono misure assistenziali che sostengono strati fragili della società italiana: i disoccupati e i lavoratori anziani, dando ai primi un sostegno economico e ai secondi la possibilità di smettere di lavorare prima di quando fosse previsto dalla legge Fornero.
C’è un filo sottile, pure, che divide queste due misure. Ed è il filo che ha fatto decidere a Draghi – a nostra avviso giustamente – di rifinanziare il Reddito di Cittadinanza e di superare Quota 100.
La prima differenza è l’effettiva utilità di ciascuna misura, una caratteristica che possiamo misurare in base a quante persone che ne hanno fatto richiesta. Il Reddito di cittadinanza è stato chiesto, tra marzo 2019 e ottobre 2021, da circa 1,5 milioni di nuclei famigliari l’anno, per un totale che supera le 4 milioni di richieste. Un numero inferiore alle attese, certo, ma comunque molto significativo, considerando che in Italia ci sono 5 milioni di poveri assoluti, 1,3 milioni dei quali sono bambini. Lo stesso non si può dire di Quota 100 – la possibilità per il triennio 2019-2021 di anticipare la pensione avendo almeno 62 anni e 38 anni di contributi – attraverso cui si stimava l’uscita dal mondo del lavoro di circa 1 milione di lavoratori e che invece ha portato a “sole” 341mila uscite, peraltro in calo verticale dalle 150mila del 2019 alle 76mila del 2021.
La seconda differenza è l’enorme sproporzione tra costo ed effettivo beneficio sociale. Il reddito di cittadinanza è una misura che permette – a costi relativamente contenuti – l’uscita da uno stato di estrema deprivazione – permettendo loro di consumi e investimenti precedentemente preclusi -, che peraltro si esaurisce nel momento in cui una persona trova lavoro. Quota 100, al contrario, è nei fatti una misura che costa più del reddito di cittadinanza pur rivolgendosi a un quinto dei percettori, e che non apporta alcun beneficio alla collettività, visto che l’apporto all’occupazione tanto decantato da Matteo Salvini – tre giovani ingressi sul mercato del lavoro ogni uscita – si è rivelato del tutto infondato: già prima della pandemia di Covid-19 – è uno studio di Banca d’Italia a confermarlo – la partecipazione al mercato del lavoro in Italia si era ridotta proprio a causa di prepensionamenti precoci cui non era seguito un ingresso di nuove figure professionali.
La terza differenza sta nell’effetto redistributivo delle due misure. Il reddito di cittadinanza è una misura che si rivolge solamente agli strati di popolazione più povera, mentre anche un lavoratore ad altissimo reddito può beneficiare di Quota 100. Non solo: un grande maggioranza di beneficiari di reddito e pensione di cittadinanza sono donne (due su tre, nel caso della pensione), minorenni (in quanto componenti di un nucleo famigliare a bassissimo reddito) e del Sud, laddove invece 7 percettori su 10 di Quota 100 sono maschi, anziani, prevalentemente residenti nel Nord Italia. Di fatto, il reddito di cittadinanza va ad agire prevalentemente sulle fasce più svantaggiate della popolazione italiana – poveri, giovani, donne e del Sud – mentre Quota 100, al netto di ogni legittimo interessa ad andare in pensione a un’età dignitosa, con un assegno dignitoso, è uno strumento di welfare per chi svantaggiato non è.
La quarta differenza, non meno importante in un’ottica futura, è legata alla percezione che tali misure hanno all’estero, e all’immagine che restituiscono del nostro Paese. In Italia mancava storicamente una forma universale di sostegno al reddito, presente invece da tempo in ogni altro Paese d’Europa. E non è una caso che la stessa Unione Europea ci richieda dal 1992 l’introduzione di uno strumento di questo tipo. Nessuno, dalla Commissione Europea alle agenzie di rating si è mai sognato di criticarne l’adozione, in effetti, semmai stigmatizzando la difficoltà di abbinare al sostegno al reddito delle efficaci politiche attive del lavoro. L’anticipo pensionistico, invece, è un unicum tutto italiano volto meramente a compiacere l’elettorato anziano del Paese più anziano al mondo, e non c’è agenzia internazionale che non abbia avuto da ridire su come abbiamo buttato via miliardi di euro, scassando conti pubblici giovani di loro messi male, per aumentare il consenso alla Lega e a Matteo Salvini. E a vedere i sondaggi, con la Lega alle stesse percentuali del 2018, non è servito nemmeno a quello.